La riscoperta di Prince

22 Aprile 2016 di Paolo Morati

Prince

Miles Davis una volta disse di Prince che era una mix tra James Brown, Jimi Hendrix, Marvin Gaye e Charlie Chaplin. Definizione che non poteva essere più azzeccata considerando come quel piccoletto (era alto 1,57) si muoveva sul palco e suonava la chitarra mentre proponeva atmosfere soul rock. Scomparso improvvisamente a 57 anni, si sprecano oggi aggettivi in gran parte meritati: poliedrico, geniale e anticonformista, Prince Rogers Nelson aveva certamente una capacità creativa che sembrava ben solida tanto che nell’ultimo anno e mezzo aveva pubblicato quattro album di inediti e la sua discografia è sterminata, dai 39 album in studio a tutto il resto.

Quando esplose sulla scena alcuni lo citarono superficialmente come rivale di Michael Jackson con il quale aveva nella realtà poco da spartire, età e genialità a parte. Non potevano infatti esserci artisti più diversi per genere, linguaggio e storia personale. Per gli ascoltatori superficiali, inutile negarlo, Prince resta comunque in gran parte Purple Rain o Kiss. Ma anche Jill Jones o meglio Mia bocca, prodotto nel 1987 con tanto di memorabile video.

Proprio da progetti come questi si può ancora oggi capire di che pasta fosse fatto Prince, al di là delle sue produzioni personali. Il resto lo lasciamo ai suoi cultori che certamente ne conosceranno meglio le diverse sfaccettature e potranno raccontarci di più anche sul suo modo di suonare e non solo cantare e comporre,  soprattutto sulle tante sfumature di un artista colorato. Perché sono proprio i colori che ci vengono in mente pensando a lui. E ora, come accade sempre quando la morte ci separa, comincia la corsa a comprarne i dischi e alla celebrazione restituendogli il successo commerciale e la memoria al pubblico. Sono meccanismi che scattano sempre e valgono anche per uno come Prince che a un certo punto si ribellò all’industria musicale (memorabili le sue performance con la scritta ‘Slave’) e che nei confronti di questa industria ha sempre mantenuto un atteggiamento di sfida (anche, se non soprattutto, nell’era di download e streaming), potendoselo anche permettere.

Come quasi tutti i grandissimi, è impossibile catalogarlo in un genere, il genere era lui stesso e la cosa, pensando soprattutto agli ultimi lavori (I due Hit n Run, ad esempio), gli era un po’ scappata di mano, quasi escludendo dall’ascolto chi non fosse un fedelissimo. Ma in definitiva Prince potrebbe ancora dire ‘If you know what I’m singing about up here, C’mon, raise your hand’, ha lasciato un segno e ne era consapevole.

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