Totò e la Fontana di Trevi, quella semplicità che ci manca

27 Febbraio 2016 di Paolo Morati

In questi giorni di accesa discussione su Indiscreto è stata citata più volte la leggendaria scena del film Totòtruffa ’62, diretto da Camillo Mastrocinque, in cui Totò (Antonio Peluffo) riesce a vendere la Fontana di Trevi a un incauto italo americano (tale Decio Cavallo, storpiato in Caciocavallo dal genio napoletano…) con la complicità di Nino Taranto (attenzione, non di Peppino De Filippo…). Quale occasione migliore quindi per tornare all’allegria parlando del principe Antonio De Curtis, per noi il più grande attore tragico italiano, laddove la comicità si fa anche grande dramma. E quella in questione è specchio perfetto di un film con un protagonista che vive di espedienti per mantenere la figlia in un costoso collegio, spacciandosi per diplomatico e arrivando incredibilmente a imbrogliare nella famosa scena l’incauto acquirente che viene preso per matto, portato via in ambulanza.

Tutto comincia con Totò che passeggia ai bordi della fontana lamentandosi dei ragazzini che pescano le monete lanciate in acqua dai turisti per esaudire i propri desideri.  A quel punto il Decio Cavallo si interessa al ’business’ (pronunciato bisiniss) e mentre sta trattando viene contrastato dal rappresentante di una casa cinematografica americana, tal Girolamo Scamorza. Ecco che entrano in gioco i classici modi operandi truffaldini per mettere fretta alla vittima che alla fine capitola consegnando nelle mani del Peluffo (finto cavalier Antonio Trevi) ben cinquecentomila lire come caparra per l’agognata fontana.

La scena simbolo di questo film, come esempio di truffa perfetta nella sua follia e quindi assurda realtà, non è però quella più divertente e capace di farti ‘scompisciare’ (cit.) dalle risate. La maestria comica di Totò si vede infatti tutta nella seduzione, lui vestito da improbabile donna, verso il padrone di casa cav. Terlizzi (un grande Luigi Pavese), presentando in tutta la sua magnificenza il suo naso (sa questi nasi… lei con quegli occhi mi spoglia, spogliatoio… ) tanto invidiato dalle amiche. Lieto fine assicurato, tra un Ernesto Calindri commissario amico e un’eredità quanto mai provvidenziale per un film che mette in mostra tutta l’ingenuità (ma anche la semplicità) del genere umano, ben lontana dalla sofisticatezza di noi di Indiscreto.

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