Quo Vado?, il miglior Zalone fa ridere meno

10 Gennaio 2016 di Stefano Olivari

Il  vero record dell’ultimo film di Checco Zalone non riguarda il botteghino, comunque eccezionale in una realtà di gente che non si schioda dal divano di casa, ma il fatto che quasi tutti i critici si siano autocostretti, per non sembrare spocchiosi e intellettualistici, a parlare bene di un film e di un attore che chiaramente disprezzano. L’aspetto paradossale di tutto il dibattito scatenatosi intorno a Quo Vado?, che come forse qualcuno saprà è da Capodanno nei cinema, è che dei quattro film di Zalone è quello che fa meno ridere. Leggendo nelle critiche che ci si sbellica dalle risate risulta quindi chiaro come la maggior parte delle recensioni siano scritte a prescindere dall’opera.

Un’opera che Checco-Luca Medici ha ideato insieme al regista Gennaro Nunziante cercando di uscire dal ghetto paratelevisivo della sequenza di sketch, proponendo una storia-storia e non un semplice pretesto per esibizioni di bravura: un impiegato pubblico pugliese, in una Provincia pseudo-modificata in Città metropolitana, che si gode le mediocri gioie del posto fisso con una produttività vicina allo zero fino a quando politici ‘nuovi’ fingono di rendere efficiente la pubblica amministrazione chiedendo una maggiore disponibilità a trasferirsi o, in alternativa, le dimissioni. Una finzione, nel film e nella realtà, perché le eccezioni sono così tante che alla fine i colpiti dalle riforme sono una percentuale infinitesimale dei dipendenti. Checco non cede alle offerte della funzionaria del ministero (Sonia Bergamasco) e solo la fede assoluta nella religione del posto pubblico lo fa resistere a trasferimenti e mobbing, fino a quando viene mandato in una base scientifica italiana non lontana dal Polo Nord. Qui incontra una ricercatrice (Eleonora Giovanardi), che lo introduce nel mondo civile e parte il cuore del film, fra metamorfosi e ripensamenti del protagonista.

Bravi gli attori (ci sono anche Lino Banfi nella parte del senatore raccomandante e Maurizio Micheli come padre di Checco), con un suo senso la trama e anche molto centrata la parte satirica, ai limiti della ferocia nei confronti della mitica ‘gente’ (memorabili le scene del Checco bambino, portato a visitare uffici pubblici dove gli impiegati sbucciano le fave e telefonano in Canada a carico dello Stato, ma anche quelle del Checco adulto che spiega i suoi concetti di corruzione e concussione), il vero problema politico italiano. Altro che Zalone renziano o anti-renziano, come si è letto a seconda delle testate… La struttura narrativa e la volgarità al minimo sono quelle di una favola, per questo delle quattro opere Nunziante-Zalone questa è la più adatta ai bambini. Ma…

C’è un ma non da poco, visto che non stiamo parlando di una puntata di Report o di un programma di Disney Channel. E il ma è che Zalone fa ridere meno che in Cado dalle nubi e Sole a Catinelle, e molto meno che in Che bella giornata (il secondo della serie), perché rinuncia quasi totalmente alla scorrettezza politica nel nome di una comicità condivisa, alla Verdone (un altro genio, che però non fa ridere da decenni). Così risate e sorrisi vengono strappati più dalla sua maschera, che non è blasfemo paragonare a Totò, e dalla sua bravura strepitosa che dalle battute. Certo è che Zalone non fa parte di alcun giro, culturale o politico, per questo è tuttora credibile come fustigatore dei costumi dell’italiano medio. I suoi record di incasso, con quello assoluto di Avatar ormai nel mirino, sono strameritati ma adesso artisticamente si trova in mezzo al guado. Può riproporre sé stesso all’infinito senza perdere pubblico, come accadde appunto a Totò, oppure proseguire nella strada tracciata da Quo Vado? e giocare nel campionato dei Chaplin.

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