Quello del tennis, ma Clerici si dimentica di Tommasi

19 Novembre 2015 di Indiscreto

Gianni Clerici non è soltanto ‘quello del tennis’, ma purtroppo per lui lo sanno quasi soltanto quelli del tennis. Da questo problema irrisolvibile è nato il primo libro dichiaratamente autobiografico del giornalista e scrittore comasco, mito assoluto per le mille telecronache in tandem con Rino Tommasi silenziate troppo presto da Sky (riprenderle adesso sarebbe troppo tardi). In Quello del tennis – Storia della mia vita e di uomini più noti di me, uscito due mesi fa per Mondadori, Clerici parla di sé stesso con autoironia, pur essendo consapevole che l’ironia potrebbe essere presunzione travestita da modestia. L’infanzia da giovin signore, la giovinezza da aspirante tennista, poi l’incontro con Gianni Brera e il giornalismo vissuto per gran parte della carriera al Giorno nell’epoca d’oro dell’ENI, scrivendo anche di calcio (ma non siamo così vecchi per ricordarcelo), anche se da ventisette anni scrive di tennis per Repubblica. Sullo sfondo una passione divorante per la letteratura e l’arte in generale, con il piano del critico e quello dell’autore che si confondono spesso, forse troppo. La tesi di Clerici, fra le righe, è che il giornalista sia una sorta di artista minore rispetto allo scrittore e non uno che fa un mestiere diverso.

Di tennis nel libro ce n’é ma non per quanto questo sport abbia occupato la vita di Clerici come giocatore, giornalista e studioso (500 anni di tennis è opera fondamentale per ogni appassionato, non soltanto italiano). Clerici continua infatti a citare persone che lo hanno considerato uno scrittore prestato allo sport, in maniera troppo insistita e in certi punti quasi (volontariamente?) ridicola. Il titolo del libro arriva da un pizzaiolo di Mantova, che a notte fonda aveva tenuto aperto solo per Clerici un locale in chiusura avendo riconosciuto non uno scrittore poliedrico ma, appunto, ‘Quello del tennis’. Non è insomma un libro su questo sport bellissimo e spietato, anche se dei libri di tennis ha il difetto principale: mille nomi, quasi tutti famosi nel loro campo di attività e quasi tutti giudicati ‘amici’, ‘buoni amici’, ‘carissimi amici’. Dichiaratamente Clerici oscura la sua vita sentimentale e sessuale, ma per quanto riguarda le attività pubbliche usa quella logica da club (a volte si chiama ‘educazione’ e Clerici di sicuro educato lo è, anche con i colleghi più giovani e meno conosciuti) che porta a smussare i contrasti, ad essere in buoni rapporti con tutti, ad adattarsi al contesto. Comportamenti accettabili nei mediocri, ma non in un grande giornalista e in un vero uomo di mondo, insospettabilmente bisognoso di quel riconoscimento letterario istituzionale che il Clerici più autentico (o per lo meno quello che ci siamo costruiti nella mente) avrebbe deriso.

Liquidato in poche righe Tommasi, all’appassionato di tennis regala comunque un bellissimo capitolo su Pietrangeli e a tutti gli altri un guizzo del miglior Clerici, parlando dei suoi incontri con Hermann Hesse ed Hemingway. Genialità e creatività allo stato puro nel racconto di quello con l’americano, in un bar di Pamplona dove l’autore di Fiesta gli racconta una storia terribile e dolcissima su un torero e un toro (del resto di cosa si può a parlare a Pamplona con Hemingway?). Lì davvero c’è tutto il ‘Dottor Divago’ che abbiamo apprezzato per decenni. Un po’ di calore umano lo si avverte anche nelle considerazioni su Brera e Ottavio Missoni, per il resto il libro più che un’autobiografia è un insieme di considerazioni di Clerici e di suoi conoscenti sull’arte di Clerici stesso, dando spazio addirittura anche alle poesie. Essendo grande la classe, si rimane sempre un passo indietro rispetto al trombonismo, ma la delusione in chi lo ha apprezzato anche come scrittore, da I gesti bianchi a Il giovin signore, rimane.

Share this article