Addio al Mc Donald’s di San Babila, ultima traccia di Burghy

21 Luglio 2015 di Stefano Olivari

Il Mc Donald’s di piazza San Babila, a Milano, è stato chiuso e la notizia dovrebbe lasciare indifferenti i vegetariani cattocomunisti. Siamo soltanto vegetariani, per fortuna, quindi non sapendo quale negozio nascerà al suo posto (temiamo il solito monomarca di abbigliamento per turisti e tamarri, che rende uguali i centri città in tutto il mondo) siamo dispiaciuti per la fine di un locale in una piazza che ha rappresentato qualcosa anche in un’era post-ideologica, anzi soprattutto in un’era post-ideologica, come erano gli anni Ottanta. Nato come Burghy nel 1982, diventò subito il ritrovo dei paninari ma anche di adolescenti non incasellabili in gruppi giovanili da sociologi, prima che di Burghy ne sorgessero di analoghi in tutta la città e in tutta Italia. Acquistato Burghy da Mc Donald’s qualche anno dopo, il posto sarebbe diventato, senza sovrastrutture o seghe mentali, ciò che è nel resto del mondo: un locale dove si mangia a poco prezzo e in maniera standardizzata, per certi versi più sicura che nei locali tradizionali, con frequentazione intergenerazionale, interclassista e davvero multiculturale, dove nessuno si sente fuori posto. Non è alta cucina, ma nessuno te la vende come tale e nemmeno come ‘tipica’: più ingannevoli le mille trattorie toscane o i duemila kebabbari rispetto a panini indubbiamente buoni, in un ambiente che piace sia ai bambini che a maggior ragione alla nostra parte infantile. Oh, poi quelli delle eccellenze del territorio possono andare a farsi inculare da Eataly o dalla gastronomia a chilometro zero. Comunque per ricordare Burghy, più ancora di Mc Donald’s, riproponiamo un brano davvero intenso del nostro ‘L’importanza dei paninari – Milano, anni Ottanta’, libro baciato da un meritato successo.

Pur essendo nato tutto al Panino, nella memoria collettiva è forse rimasto di più il Burghy di piazza San Babila. Affermare che i paninari siano nati nei fast food, che nella prima metà degli anni Ottanta avevano iniziato a diffondersi in tutta Italia, è sbagliato. Ma è vero che per uscire da una dimensione solo milanese c’era bisogno di un luogo più neutro e asettico, oltre che replicabile ovunque, come appunto il fast food. Il luogo di ritrovo non era casuale: doveva evocare un po’ l’America di Happy Days, farti immaginare che nel tavolo a fianco ci fosse Richie Cunningham con la fidanzata Lori Beth, ma avere anche un’identità nazionale. Doveva essere soprattutto una cosa da giovani, che rompesse la struttura quasi militaresca della vecchia vita da bar in cui ognuno recitava una parte ben precisa. Il giovane, l’uomo di successo, il chiavatore, il fenomeno del biliardo, quello con un passato misterioso e così via, con il proprietario del locale a fare da moderatore. Nel fast food non c’era invece rapporto con il barista, che non esisteva, né con cassieri-camerieri che cambiavano da una settimana all’altra. Il rapporto era solo con il luogo e le persone che lo frequentavano insieme a te. In questo senso il Panino non era paragonabile a vari Burghy e Wendy’s, ma assomigliava piuttosto ad un bar vecchio stile. E tale è rimasto fino ad oggi, mentre Burghy è stato non a caso sostituito da McDonald’s. (…)

Più gusto di Burghy nessuno ti dà. Memorabile lo spot con il cowboy che scende da cavallo, così come quello più istituzionale che coinvolgeva tutta la famiglia. Tutti sorridenti, con la madre che sembra uscita da ‘Sotto il vestito niente’ dei Vanzina e il padre che dà al figlio i soldi per comprare il panino a una nonna seduta all’altro tavolo, ingraziandosela e lasciando così il locale tenendo per mano la nipote. Chi c’era non ha però bisogno di You Tube, di Burghy può ricordare senza problemi anche i panini. I normali hamburger e cheeseburger, il Big Burghy (doppio hamburger di carne di manzo, formaggio, lattuga, cipolla e salsa Burghy), il King Bacon (con il bacon, chiaramente, ma anche con un pane diverso: al sesamo, sembrava una grande innovazione), il King Chicken (petto di pollo con formaggio), il King Cheese (lì mettevano il ketchup) e il mio preferito. Il King Fish, una specie superbastoncino di pesce stile Findus con salsa tartara, non lo prendevano in tanti ma io per il King Fish andavo fuori di testa. Non mancavano le patatine, nel classico cartone giallorosso, andando avanti negli anni sarebbero state inserite le insalate (ma chi ha mai preso un’insalata da Burghy?), però nel cuore sono rimasti i Chicken Dorè (bocconcini di pollo, da unire a varie salse) e i milkshake con le tre possibilità fragola-cioccolato-banana. La nostalgia deforma tutto, ma quegli hamburger erano davvero buoni e in origine anche l’azienda, non solo chi ci lavorava, era italiana. Prima dei supermercati GS, che dopo essere stati comprati dai francesi di Carrefour adesso non esistono più nemmeno come marchio. In seguito di Cremonini, quello della carne, fino all’acquisto da parte di McDonald’s a metà degli anni Novanta. A inizio terzo millennio mi sono concesso una mezz’ora di meditazione solitaria a Casalecchio di Reno, dove resisteva ancora (per poco) l’ultimo Burghy con l’insegna Burghy nonostante la proprietà fosse cambiata da anni.

 Al di là del rimpianto per un’Italia che non c’è più, anche se Cremonini ha continuato a fornire carne a McDonald’s, è interessante il ricordo dei concorrenti sulla piazza milanese. Spariti quasi totalmente anche da quei forum per nostalgici che infestano il web, alla ricerca del tempo perduto e forse mai vissuto. Il Burger One di corso Vittorio Emanuele, che si raggiungeva salendo una scalinata: lì ho scoperto gli onion ring e il frozen yogurt. Praticavo poco il Quick, che faceva parte dell’omonima catena belga, poi diventata francese: andavo in quello di piazza Cordusio, ma ce n’era uno anche in corso Buenos Aires. Non mi scaldava ma trovavo comunque curioso l’Italy & Italy di via Torino, che univa gli hamburger a piatti della tradizione italiana come la pasta. Ho ancora negli occhi gli spaghetti Mazzini, in pratica un’amatriciana, i Garibaldi al pomodoro e i Verdi dove Verdi non stava per Giuseppe ma per il pesto che li inondava. La pizza di Italy and Italy si materializzava sottoforma di un panzerotto ustionante chiamato Pizzotto, mentre fra i secondi oltre a quattro tipi di hamburger c’era una bistecchina tristissima, quasi da ospedale. Ma era soprattutto Wendy’s a poter essere considerato per molti aspetti il vero anti-Burghy. Intanto perché di tutti i marchi citati era l’unico davvero americano, quindi ad alcuni di noi sembrava più vero. Il mio Wendy’s preferito era in piazza Argentina, ma non mi dispiacevano quelli vicino alla Stazione Centrale e in largo La Foppa. I panini erano quadrati e lì qualcuno che prendeva l’insalata me lo ricordo. Fra l’altro insalate che ti andavi a servire da solo in una specie di isola, condendole non con l’olio e l’aceto della mamma ma con un salad dressing biancastro. Tutta roba molto anni Ottanta, ancora prima che paninara. Che McDonald’s si sarebbe gradualmente mangiata, proprio come aziende, nel giro di pochi anni (estratto di ‘L’importanza dei paninari – Milano anni Ottanta’, fighissimo romanzo-saggio in vendita a 5,99 euro in formato eBook per Kindle, iPad, Kobo e tutti gli altri eReader, ma anche in versione cartacea a 12 euro, distribuito da Distribook). 

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