L’ultimo passo di Kerr verso quei Bulls

2 Giugno 2015 di Simone Basso

Nelle analisi statistiche, almeno in quelle, i Golden State Warriors 2015, oltre a un eloquente 67-15 di record, nella stagione regolare si sono avvicinati ai Chicago Bulls 1996. Ultimo combo ad aver capeggiato sia il rating offensivo che quello difensivo (entrambi calibrati sui 100 possessi). Impresa numerica che cattura, per una volta, una tendenza vincente prossima al dominio. Se in attacco (112,18 punti prodotti) sono stati preceduti dai soli Clippers (113,21), in difesa hanno battuto di quasi un’unità (101,86 contro 102,61) i San Antonio Spurs. Notando che la terza formazione del lotto sono i Memphis Grizzlies, capiamo subito che i playoffs Nba – qualitativamente – si sono risolti in due serie, occidentali, che hanno anticipato le cosiddette finali di conference. Gli asterischi, le note a margine, sarebbero innumerevoli.

I titoli si vincono dalla parte del parquet che non vende i biglietti e che, raramente, regala materiale da highlights. Dai Bad Boys di Detroit, e dal Limoges di Maljkovic, sono la produttività e l’intensità dell’assetto difensivo che fanno la differenza. Anche nelle squadre più sbilanciate (ci vengono in mente i Mavs 2011) c’erano Chandler, Kidd, Marion… Steve Kerr, allenatore matricola ma uomo di basket dalle mille esperienze, è l’anello di congiunzione tra questi Warriors e quei Bulls. La Curry band in effetti pare prendere qualcosa da tutta la pallacanestro vissuta, in prima fila, dall’ex guardia di Arizona. La Smallball e i Seven Seconds Or Less dei Suns di D’Antoni (Kerr, ai tempi, era il giemme) sono evidenti. La filosofia di Gregg Popovich, oltre che nell’alternanza del bastone con la carota, le rotazioni profonde e vorticose, appare in molti concetti tattici. Davanti, i velocissimi ribaltamenti di lato e le triple dagli angoli; dietro, gli accenni di aiuto sottocanestro senza abbandonare la minaccia del tiratore da tre. Della Triangolo di Tex Winter (e Jackson) ci sono la ricerca degli spazi e i tagli, rispettando il flusso del gioco.

La prossima stagione fanno vent’anni tondi dall’incipit (trionfale) dell’ultima Chicago dinastica. Potremmo raccontarvi tutto e il contrario di tutto su quell’annata (che seguimmo giorno dopo giorno, annusando l’impresa storica). Lo squadrone del 72-10 apparteneva tatticamente a Pippen, con la leadership, il carisma, di Jordan a sublimarla. Soprattutto i primi mesi di regular, l’impressione fu di una superiorità quasi imbarazzante. Quel sistema a trazione posteriore, collaudato durante l’anno e mezzo di assenza del Ventitre, permetteva a Michael stesso di sorvolare ampi momenti degli incontri, risparmiando energie psicofisiche preziose, consentendogli di inserire le marce alte nel clutch. Vigevano allora le Derek Harper Rules e l’idea difensiva era di presidiare il fortino con alcune regole fisse. Ricordiamo pure che non si poteva “zonare” (o lo si faceva mascherando gli adeguamenti). Pippen, che comandava l’ambaradan, movimenti e parole, veniva assegnato – a seconda delle opportunità – sull’esterno più pericoloso o il lungo (solitamente un cinque) battezzabile. Nell’ultimo caso scattavano i raddoppi e i wolfing out, superbi, del Trentatre. Il migliore difensore della lega (che di là faceva venti punti a partita e il playmaker) interagiva perfettamente col migliore attaccante del mondo, uno che – dall’altra parte dei ventotto metri – era strepitoso nel leggere i corridoi di passaggio altrui. “Datemi Michael e Scottie e non importa chi altro c’è in campo..” (Chuck Daly). In effetti Jordan e Ron Harper, all’occorrenza, erano dobermann (quasi) del livello di Scottie. Completava il mosaico Dennis Rodman, straordinario nel marcare a uomo qualsiasi lungo avversario: lo vedemmo limitare – tecnica, mestiere e cuore – Shaquille O’Neal e Karl Malone al loro apice.

Sarebbe interessante vedere un collettivo del genere nella pallacanestro odierna. Il dover staccare il contatto con l’attaccante limiterebbe certe licenze. Non potrebbero portare la contesa a ritmi oltraggiosamente bassi come facevano (nel triennio d’oro flirtarono spesso con gli 80 di pace), ma una zona mista con Pippen in testa, Jordan e Harper ai lati, Rodman nel pitturato ci sorprenderebbe parecchio… Proprio nel ’96, nelle finali orientali, in Gara2 i Bulls rimontarono i rampanti Orlando Magic di Shaq e Penny. Sotto di diciotto, nel terzo quarto, sigillarono il canestro: uno spettacolo. 

Jordan ne fece 35, Pippen sfiorò una tripla doppia. La gang di Phil Jax, invecchiando il nucleo base, avrebbe messo sempre più l’accento sulla difesa e il controllo del ritmo. Chiedersi cosa combinerebbe oggi è intrigante; al netto di un gioco sempre più percentuale (che ricerca triple e lay up), quel combo – in una clamorosa Gara3 delle Finals 1998 – smontò una macchina da basket a metà campo come gli Utah Jazz di Jerry Sloan. Tenuti, quella sera, a 54 punti (!) e con un raggelante trenta per cento su azione.

Lo scenario difensivo dei Warriors è estremo. Due giocatori, Green e Bogut, hanno ricevuto l’onorificenza (meritata) dell’inclusione nei quintetti All Defensive. Fuoriclasse operaio, Draymond Green è un jolly che non ha problemi ad uscire, a sette metri, sui pick and roll. L’australiano Bogut, il bipede che, in alcune movenze, ci ricorda maggiormente il Meneghin milanese, è formidabile negli intangibles e nella protezione del ferro. Nella Baia cambiano tutti, creando il sovrannumero sul lato forte. La versatilità dei Barnes (un principe), Green, Iguodala alimenta una transizione difensiva che produce palle perse e contropiede. Pattern dei Bulls 1996-98, nelle situazioni d’emergenza il lungo, per esempio Bogut, viene messo sul punto debole offensivo degli avversari: il Tony Allen di Memphis, battezzato senza pietà. Nell’analisi complessiva della portaerei, che si nutre di parziali (innescati appunto dalla difesa e dagli Splash Brothers), manca la componente emotiva. La mistica, chassis essenziale degli squadroni; esibita in quantità bulimica dalla Chicago che fu e rappresentata dallo sguardo – assassino – di His Airness. La curiosità delle imminenti Finals è nel verificare l’impatto di un gruppo, potenzialmente inarrestabile, con l’esame più importante. Scrutinato dai Cavaliers, brutti, sporchi e cattivi, guidati dal miglior giocatore dell’evo contemporaneo; un campionissimo al quinto Showdown consecutivo della sua carriera.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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