Per Federer soltanto un selfie

26 Maggio 2015 di Simone Basso

Appare, come la nuvola di un temporale, si manifesta e poi – sul più bello – se ne va. Petra Kvitova – fero e piuma – è, tra le amazzoni che comandano la Wta (i donnoni..), la migliore tennista. L’insostenibile leggerezza dell’essere della boema ne fa un enigma: nel 2011 (quando vinse Wimby, Masters e Fed Cup) ci illuse, convinti di aver trovato la nuova regina, la numero uno degli anni Dieci.

Poi, ahilei, ci ha abituati a un rendimento schizofrenico, imprevedibile. La bionda non regge la pressione della fama e del circuito; a inizio stagione aveva addirittura dovuto staccare la spina per salvare cabeza e carriera. La vedi a Madrid, nello scatolone metallico, sulla terra rossa veloce, e si rimaterializza l’iraddidio. Il serenicidio della Williams è stato un manifesto: anticipava sulla seconda della sorellina di Venus, nemmeno scherzasse, ineccepibile nel timing dei colpi, velenosi (fortissimi) o effettuati. L’uno-due di Petrona – mai così asciutta fisicamente – terrorizza il tennis rosa: nella giornata giusta, l’avversaria – di fronte ai servizi mancini e a colpi al volo violenti quanto precisi – è impotente. Chiedete a Genie Bouchard, robotennista pin-up, che per mesi, dopo la lezione erbivora della finale di Wimbledon, ha smarrito fiducia e garra.

Per la rassegnazione di alcuni e il travaso di bile di altri, il centro di gravità permanente dell’Nba – agonistico e mediatico – rimane LeBron James. La stagione dei nuovi Cavaliers, al solito sovraesposti per la presenza del Prescelto, è girata nella maniera più improbabile; la sera della Gara4 allo United Center, in una partita che – nel bene e nel male – spiega l’eredità di James. Che, con un tiro sulla sirena, ha ribaltato la serie e la stagione di due franchigie. Un buzzer beater che sconfessava la lavagna e i suggerimenti di David Blatt e modificava la percezione di un quarto, fin lì, giocato male, all’insegna di isolamenti, forzature e di una selezione di tiro orripilante. Al di là delle sue peculiarità tecniche, LeBron è inallenabile; perchè si autogestisce al pari di altre superstar dell’evo moderno: Jordan (almeno fino al primo ritiro) e Bryant su tutti. Il problema, e il vantaggio per la squadra, è che l’androide di Akron è troppo forte e dominante per non condurti alla terra promessa. Malgrado l’Hero Basketball ci sono incontri, l’esempio più esaltante è stata Gara2 ad Atlanta, nei quali questo cyberatleta – erede genetico di Mo Stokes – esercita un controllo assoluto sull’inerzia della sfida. Compagni, avversari, punteggio, arbitri, pubblico. Impiegato da quattro, o cinque tattico, se servito in situazioni dinamiche, diventa inarrestabile. Ultrafisico, punitivo, in post; sensazionale come playmaker e facilitatore (ribalta il lato con passaggi laser..); Two Way a fasi alterne ma, nel momentum, ineccepibile. Cambia su tutte e cinque le razze di attaccanti. L’uscita di scena di Kevin Love e l’infortunio a Kyrie Irving hanno estremizzato l’assetto (ideologico) del combo. Un po’ come la Cleveland che fu, i LeBroners vivono e muoiono col suo despota illuminato. I fedelissimi, rispettando un canovaccio antico, vantano un vissuto Nba così così: JR Smith, profeta del tiro ignorante, talento allo stato brado, Tristan Thompson, animale rodmaniano (straordinario a rimbalzo), Matthew Dellavedova, un giocatore di calcio australiano prestato alla pallacanestro. Difendono, giocando (a ritmo lentissimo) di energia e cazzimma: credono nel loro destino vincente, su ogni palla. Nelle semifinali orientali hanno eliminato una squadra più forte, i Bulls, un collettivo che aveva le armi (la quantità nei lunghi, la qualità negli esterni) per spazzarli via. Con almeno un anno di anticipo, l’impresa è servita. Non pensiamo che riusciranno a battere, in sede di Showdown, i Golden State Warriors. Superpotenza occidentale che implementa un altro livello esecutivo, formidabile ovunque (smallball e Triple Post Offense davanti, transizione e adeguamenti maniacali dietro), profondissima e con un gruppo in missione speciale. Date due o tre panchinari della Baia (Iggy, Livingston, Ezeli) ai Cavs e James vi ribalterebbe – con una spallata – l’universo intero.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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