Rossi c’è, il giornalismo no

7 Aprile 2015 di Simone Basso

Pallino bulimico questo martedì, in attesa di raccontare la prossima volta ciò che ci interessa di più, ovvero lo sport. La settimana scorsa girava, via rete, un fotomontaggio della serie “La Gazzetta che vorrei”, con le (giuste) rivendicazioni del mondo ciclistico sulla vittoria di Paolini a Wevelgem. Il Barba compariva in mezzo a Vettel e a Rossi. Abbiamo già trattato il caso – spinoso – della Rosea e andiamo oltre. In fondo, sfogliando i media generalisti (cartaceo e virtuale pari sono), il mantra è il solito: a questi, e ai suoi lettori/consumatori, frega qualcosa della prossima Parigi-Roubaix? O della stagione tennistica della terra rossa, dei quarti di Eurolega e via così. In una realtà, commerciale e culturale, nella quale la Diamond League della IAAF stenta a trovare uno spazio televisivo di qualsiasi tipo…

Il giochino verte su altre dinamiche, a dir poco brutali. Che vengono spiegate benissimo dal can-can sui motori; o meglio, sulla Ferrari e Rossi. Una pompa magna che ha similitudini solamente con il calcio, ma col conforto – nel caso delle rosse e di Valentino – di un’unanimità di giudizio fondamentalista. Forse solo le nazionali, in virtù di un patriottismo cialtrone, richiamano gli stessi decibel a favore. Consideriamo lo spettacolo motoristico un bell’intrattenimento, nonché una vetrina perfetta di quell’industria. Funziona perchè vende il mito più ossessivo, dal tardo Ottocento in poi, del nostro immaginario collettivo: la velocità. Una dimensione, estrema, che implementa tanti fattori concatenati: dalla passione per l’evoluzione tecnologica al fascino per il rischio (e la morte). Ciò che ci sconcerta è l’eliminazione, chirurgica, di qualsiasi voce scettica o dissonante sull’argomento; i toni, la forma e la sostanza.

https://www.youtube.com/watch?v=6CmpqvmyvBc

Lo sguardo, agli occhi non accecati dall’enfasi preconfezionata, casca su un’esibizione che – in particolar modo in alcuni scenari esotici – fa parecchio “Capricorn One”. In primis, rassegnarsi alle urla belluine del telecronista ultrà, che tifa senza vergogna, è avvilente. Perchè riduce il linguaggio, già impoverito ai minimi termini, alle frasi fatte. L’effetto del consenso tout court è ancor più inquietante. Il presidente del CONI non dovrebbe rallegrarsi per le vittorie di un’azienda privata o di un campione hamburger. Si è smesso da eoni di pensare che uno sportivo di successo debba essere un esempio, ma preferiremmo almeno scrutare altri orizzonti. Criticare Rossi, un fuoriclasse delle due ruote, è un esercizio di stile. Conosciamo le variabili infinite del campionismo arraffone: così fan tutte o quasi. Dai labirinti dei diritti d’immagine all’evasione totale, multimilionaria, passando per l’elusione fiscale più sofisticata. Basterebbe riguardarsi il messaggio alla nazione (…) del Peter Pan di Tavullia, il dì che il fisco contabilizzò la sua truffa, per riconoscere i tratti più deleteri dell’italiano vero. L’autobiografia (psicosomatica) di una nazione.

La mancia è che, nel Bel Paese, a più di cent’anni dal Futurismo, continuiamo a illuderci che la velocità sia la nostra panacèa. In un territorio dove si sabotano le linee ferroviarie a media e piccola percorrenza, i treni superveloci li chiamano Frecciarossa; così che il cliente culli il sogno del mito ferrarista. La retroazione sociale è nota, tragica (con un costo impossibile da tollerare), però la ignoriamo volutamente. L’era delle auto e delle moto si incarna in “Crash” di Ballard, un flusso di coscienza che coinvolge i corpi a pezzi e i rottami metallici. Tentiamo di esorcizzarli attraverso riti tribali: siamo giunti a far risuonare una moto, in una chiesa, per celebrare la gloria tragica di un centauro sfortunato. Ma non ci sono pensiero ed etica se continueremo a cancellare le domande insidiose.

Qualche anno fa, in Belgio, nel bel mezzo di un dibattito sull’ecocompatibilità del Gran Premio di Spa-Francorchamps, il Dipartimento delle Scienze di Liegi emesse uno studio sull’inquinamento prodotto dalla gara nelle foreste delle Ardenne. Una domenica di Formula Uno produceva 8400 tonnellate di anidride carbonica. Da quelle parti lo paragonarono al black out di ventiquattro mesi degli impianti solari della regione; in Italia l’associazione AzzeroCo2 ne stimò l’impatto in cinquecento voli Milano-Palermo. Dati molto significativi, che l’informazione contemporanea relegò alle Brevi o ignorò, convintissima ormai che l’unica comunicazione possibile – e passabile – fosse quella pubblicitaria. I padroni del vapore pagano bene.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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