La fortuna dell’operaio Trapattoni

18 Marzo 2015 di Stefano Olivari

Giovanni Trapattoni ha appena compiuto 76 anni e noi, sottolineandolo con un Taac! alla Dogui, proponiamo in suo onore un articolo scritto due settimane fa per Il Giornale del Popolo. 

LEZIONI DI VITA A STRUNZ – Al posto giusto nel momento giusto, la prima regola del successo nella vita e a maggior ragione nel calcio che della vita è metafora. Giovanni Trapattoni è un allenatore che ha vinto tantissimo con squadre che probabilmente avrebbero vinto anche senza di lui, fallendo in realtà di livello medio e non conoscendo mai quelle di livello basso. Questo non toglie che nessuno come Trapattoni abbia attraversato da protagonista oltre mezzo secolo di calcio italiano ed internazionale da giocatore e da tecnico, nei club e nelle nazionali, guadagnando tantissimi soldi e facendo schiattare di invidia allenatori ritenuti dai media e dai tifosi più preparati, più coraggiosi, più degni di essere imitati. Non che i media siano mai stati contro Trapattoni, anzi hanno molto contribuito al personaggio rilanciando sue frasi astutamente storpiate (da “Sarò breve e circonciso” a “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”, passando per il celebre sfogo contro Strunz e mille altri episodi) e facendolo quasi diventare una macchietta, sorvolando sui tanti limiti mascherati da un albo d’oro clamoroso: campionati vittoriosi in quattro paesi diversi (Italia. Germania, Portogallo, Austria), sette coppe europee (sei con la Juventus, una con l’Inter), riconoscimenti individuali a pioggia. È solo che hanno apprezzato il personaggio, forse addirittura l’uomo, più che l’allenatore.

LOMBARDIA PROFONDA – La vera grandezza di Trapattoni è stata quella di considerarsi sempre un operaio, da giocatore e da allenatore. Non è mai stata una posa, perché Trapattoni l’operaio l’ha fatto sul serio: lucidatore di mobili, riparatore di elettrodomestici e poi tipografo, quando già era uno dei più promettenti nelle giovanili del Milan. Figlio di operai, quinto di cinque figli, studi fino alla scuola dell’obbligo ma tantissima voglia di imparare, in ogni campo e con dedizione totale: soprattutto le lingue, sfidando l’ironia di chi in vita sua ha frequentato soltanto il divano di casa. Cusano Milanino e la Lombardia del lavoro, inteso come lavoro vero, sono sempre stati dentro di lui. Grandissimo gregario in campo, nel Milan illuminato da Rivera e guidato da Rocco, due Coppe dei Campioni e tanto altro prima di abbandonare per sfinimento, come tutti quelli che una volta si definivano ‘mediani’, Trapattoni ha portato questo spirito anche fuori dal rettangolo di gioco rifiutando di atteggiarsi a guru, quando invece le sue idee calcistiche sono sempre state molto forti.

FATAL VERONA – Pochi ricordano l’inizio drammatico della sua carriera di allenatore: a soli 34 anni, il 20 maggio 1973, proprio nel giorno della cosiddetta ‘Fatal Verona’, con il Milan sconfitto che si vide sorpassato in extremis dalla Juventus. In realtà l’allenatore di quel Milan era Nereo Rocco, squalificato, mentre il vice Cesare Maldini era ammalato. Così in panchina andò il Trap, che cominciò nel modo peggiore possibile anche se la sua presenza quel giorno è stata sbianchettata. Ma Rocco gli voleva bene, non al livello di Rivera ma abbastanza per lanciarlo come suo successore nella parte finale della stagione successiva, che terminò con la sconfitta in finale di Coppa delle Coppe contro il Magdeburgo. Nemmeno il marchio di qualità del ‘Paron’ gli fece però guadagnare la panchina definitiva del Milan, così tornò nelle retrovie quando l’allora presidente Buticchi ingaggiò Giagnoni.

NAZIONALE MASCHERATA – Poi un altro giro con la prima squadra e finalmente l’incontro con Boniperti, che ebbe l’intuizione di lanciarlo in un ambiente come quello della Juventus: la migliore rosa d’Italia, che aveva bisogno soltanto di un uomo di calcio abbastanza intelligente da non mettersi a fare invenzioni dove non ce n’era bisogno. Una squadra, la Juventus, che in quel calcio autarchico (le frontiere erano state chiuse nel 1966, dopo il disastro mondiale contro la Corea del Nord, e sarebbero state riaperte soltanto nel 1980) coincideva con la Nazionale ed in Italia avrebbe dominato guidata da chiunque. Nel 1986, dopo avere vinto tutto, la sfida raccolta all’Inter, ritrovando certi meccanismi mediatici dei tempi del Milan e vincendo uno scudetto record in mezzo a tante critiche per il gioco troppo difensivistico e la riluttanza nel lanciare giovani.

L’IMPRINTING DI ROCCO – Trapattoni nasce come italianista convinto, ancora prima che catenacciaro. Niente è più lontano da lui dell’esaltazione del possesso palla, il che non significa per forza difensivismo visto che spesso le sue squadre (come del resto quelle di Rocco) hanno avuto in campo quattro elementi catalogabili come attaccanti. Lui è un prodotto del calcio in cui ognuno, a prescindere dai numeri disegnati alla lavagna, aveva un ruolo rigidissimo: il libero, il mediano che doveva annullare il fantasista avversario, il terzino d’attacco, il tornante, eccetera. E questo imprinting di Rocco se lo è portato fino ai giorni nostri, pur dovendosi adattare a mille situazioni diverse e proponendo anche spesso ‘normali’ 4-4-2. Trapattoni ama dire che pratica una zona mista, nella sostanza ha ragione ma in pratica le sue squadre raramente hanno regalato spettacolo e dato l’impressione di sfruttare tutte le proprie potenzialità. Da gregario del Milan di Rivera ha sempre avuto una grande fiducia nei giocatori di talento, ma raramente è stato ricambiato: Platini ma anche tanti giocatori di rango inferiore lo hanno spesso trattato con una sufficienza ai confini della maleducazione. Lo hanno apprezzato, non a caso, i campioni operai come Antonio Conte.

CITTADINO DEL MONDO – Un’altra critica che spesso si muove a Trapattoni è quella di avere quasi sempre guidato grandi squadre, come se questo fosse una colpa e non una fortuna. Dopo l’Inter nel 1991 tornò alla Juventus, facendo spendere ad Agnelli e Boniperti l’impossibile per raggiungere un Milan berlusconiano che però spendeva ancora di più dell’impossibile. Poi la prima esperienza al Bayern, andata maluccio, la scelta del Cagliari andata malissimo, il positivo ritorno a Monaco e due buoni anni alla Fiorentina prima di arrivare al top, cioè alla Nazionale. Male al Mondiale 2002, con qualche alibi arbitrale ingigantito, male a Euro 2004, prima di tornare in giro con Benfica, Stoccarda, Salisburgo e infine con la nazionale irlandese.

IL TRAPATTONIANO HAPPEL – A 76 anni continua a ricevere proposte, più dal Terzo Mondo che dal Primo, ma non è troppo presto per chiedersi quale posto abbia Trapattoni nella storia del calcio. Di sicuro non è mai stato un innovatore, perché il catenaccio diventò un modulo di gioco con Karl Rappan (il verrou della Svizzera al Mondiale 1938) e nella stessa Italia fu importato prima da Viani e poi da Rocco. Di sicuro non è mai stato uno che ha portato le sue squadre oltre la somma del valore dei singoli: con i Platini vinceva, con i Keane ha vinto meno. Ma è altrettanto sicuro che Trapattoni non ha mai venduto fumo né mai si è spacciato come allenatore ‘da progetto’, al contrario di colleghi nati in giacca e cravatta. È sempre stato una persona molto seria, con molte paure da ex povero (ha fama di avaro, in realtà è un investitore molto oculato e senza sbandierarlo fa anche beneficenza), molto religiosa con sconfinamenti nella superstizione, molto diretta anche con i conoscenti occasionali. Una persona che risaltava anche nel mitico ‘calcio di una volta’, per essere al di fuori di certe logiche dello star system. Non è tra i primi dieci allenatori di tutti i tempi, dove ha ad esempio cittadinanza quell’Happel che nella finale di Coppa Campioni del 1983 fece il Trapattoni al quadrato, mettendo Rolff a uomo su Platini. Forse non è nemmeno fra i primi dieci italiani, nonostante le vittorie. Ma a stare più di 60 anni ad alto livello in questo circo, rimanendo un uomo normale, ci è riuscito soltanto lui.

(pubblicato su Il Giornale del Popolo del 6 marzo 2015)

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