Hannah Arendt, la banalità di Heidegger

11 Febbraio 2015 di Stefano Olivari

È triste che si parli di Shoah, foibe e genocidi vari soltanto in occasione di ‘Giornate’ dove spesso la retorica (nel caso delle foibe nemmeno quella, fra i silenzi del sobrio Mattarella e gli strafalcioni della Boldrini) stravince sull’analisi storica. Non abbiamo bisogno di pretesti per parlare di Hannah Arendt, il film di Margarethe von Trotta uscito in Italia nel 2014 in occasione della Giornata della Memoria e visto in un ottimo cinema parrocchiale (il Rosetum, asterisco milanese) pochi giorni fa. E ancora più recente è l’uscita del nuovo volume dei Quaderni neri di Heidegger, professore della Arendt a Marburgo, con tanto di teorizzazione della Shoah come autoannientamento (Selbstvernichtung, se non abbiamo copiato male) degli ebrei, visti come rappresentanti di una modernità che avrebbe corrotto l’Occidente a parte pochi popoli ancora capaci di compattezza, come quello tedesco. Una modernità legata alla tecnica (discorso lungo, noi non siamo in grado di farlo nemmeno corto), che poi gli si sarebbe ritorta contro.

La storia della Arendt è nota, intelligentemente il film parte dal suo periodo di grande successo in terra americana e dalla sua autocandidatura come inviata per il New Yorker al processo Eichmann (Mossad, grazie di esistere). Dall’osservazione dell’autodifesa del criminale nazista, ufficiale SS preposto alla deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio, la filosofa, già famosa per molte opere ‘eretiche’ e in particolare per Le origini del totalitarismo (oggi paragoniamo stalinismo e nazismo, ma negli anni Cinquanta la cosa non era scontata), avrebbe tirato fuori una serie di articoli memorabili e poi il libro La banalità del male, in cui avrebbe spiegato i meccanismi attraverso cui individui e popoli non riflettono su ciò che stanno facendo, con la loro mediocrità che diventa il presupposto per crimini inimmaginabili o anche semplicemente per essere manovrati con parvenze democratiche (di qui la modernità eversiva del suo pensiero). Insomma una riflessione più profonda rispetto all’Hitler pazzo e cattivo che inganna un popolo con nobili valori, cosciente di dove stia il bene, usando il terrore e la forza di qualche migliaio di fanatici. L’Hitler che tuttora viene mediocremente e banalmente, è il caso di dirlo, spiegato ai ragazzi di medie e superiori.

Va da sé che la riflessione della Arendt le procurò problemi in Europa, in Israele e anche negli Stati Uniti, visto che il suo discorso sulla mediocrità da molti fu interpretato in chiave giustificativa. Nel film viene dato molto spazio a critiche della Arendt agli ebrei europei, i cui rappresentanti per un certo periodo pensarono di poter venire a patti con il nazismo perdendo molti diritti ma salvando la vita, ma è probabile che ci fosse solo qualche accenno sul New Yorker. In definitiva quello della Von Trotta è poco più di un sufficiente compitino, rapportato alla enormità della storia: ben tratteggiati le crisi di identità da ebreo tedesco errante (prima di approdare a New York la Arendt si rifugiò in Francia, dove nel 1941 per puro miracolo sfuggì al campo di concentramento) e anche il clima intellettuale newyorkese (bello il personaggio, realmente esistito, dell’amica scrittrice Mary McCarthy), ma poco approfondito il nucleo della vita e del pensiero della Arendt. Che, interpretata dalla vontrottiana osservante Barbara Sukowa, appare quasi come una che si diverta a provocare gli ebrei per arroganza intellettuale e voglia di stupire, una inconsapevolmente plagiata dal pensiero di Heidegger (forse suo amante), in definitiva una stronza incapace di distinguere fra il bene e il male, che si sente a suo agio solo fumando a ritmi da Pino D’Angiò.

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