Il nome del figlio, la Archibugi copia con classe

27 Gennaio 2015 di Stefano Olivari

Regista e attori de Il nome del figlio, per non parlare dei finanziatori (Sky, Rai, Ministero, varie banche, eccetera), ci avevano resi prevenuti in negativo nei confronti di un’opera oltretutto non originale, in quanto adattamento italiano di un film francese di 3 anni fa (Le prènom, a sua volta trasposizione di un testo teatrale). La solita sbobba da salotto romano di sinistra, pensavamo, fatta per il solito pubblico di amici della Melandri e di Veltroni, finanziata con i soldi degli altri. Pre-recensione corroborata dalle recensioni di quelli veri, che avevano letto in chiave politica e non social-generazionale il discorso Benito (il nome che Gassmann dice di voler dare al figlio che sta per nascere), trascurando il resto, cioè il 95%, del film.

Invece Francesca Archibugi ha umilmente seguito la trama e la struttura dell’originale, concentrandosi sulla sceneggiatura e sull’italianizzazione dei personaggi. Con risultati notevoli, perché gli attori sono tutti sopra la loro media (in particolare Gassmann) e il film non supera mai i confini del macchiettismo. La situazione è di tipo teatrale e questo ha evidentemente permesso di ridurre il budget, spendendo quasi tutto per attori di qualità. Una cena fra cinque amici: Paolo (Alessandro Gassmann), agente immobiliare di successo; sua moglie Simona (Micaela Ramazzotti), scrittrice improvvisata ma che vende; la sorella di Paolo, Betta (Valeria Golino), insegnante di scuola media, casalinga progressista e semidisperata; il marito di Betta, Sandro (Luigi Lo Cascio), professore universitario e saggista incompreso; il musicista vivacchiante Claudio, amico di infanzia di Paolo, Betta e Sandro. Simona è di tutt’altra generazione rispetto agli altri quattro, di estrazione sociale simile a Claudio e Sandro, mentre Paolo e Betta sono figli di un famoso intellettuale e uomo politico di sinistra. Emanuele Pontecorvo, ebreo da bambino sfuggito ai nazisti e monumento nazionale al quale dopo la morte Paolo e Betta sono sfuggiti in diverso modo, discorso che vale anche per la loro madre.

Il nome da dare al figlio che sta nascendo a Paolo e Simona è solo un pretesto per scatenare discussioni politiche che nascondono anche rancori personali, con fallimenti confessati a fatica a se stessi e incapacità di vedere oltre il proprio micro-ambiente. Ma il personale è anche sociale, perché tutti e cinque hanno una chiara coscienza dell’ambiente da cui vengono e di dove sono adesso. La scala dei valori è però diversa perché, semplificando, Simona ritiene di essere andata ‘avanti’, Betta ‘indietro’, Sandro va a momenti, Paolo si mostra sicurissimo di sé ma è cosciente di avere deluso il padre o almeno il Super-Io che lo rappresenta. Solo Claudio sembra avere trovato un compromesso fra aspirazioni del passato e vita vera: gli amici pensano sia omosessuale, ma riuscirà a sorprenderli in un modo che sconvolgerà tutti tranne uno. Troppo risolto e ‘carino’, nel senso deteriore del termine, il finale, ma questo non è Il Grande freddo e nemmeno Compagni di scuola. Il notevole numero di battute porta inevitabilmente a tifare per chi ne spara di più, in questo senso stravince un Gassmann in versione, è il caso di dirlo, mattatore. Ma tutto l’insieme è molto curato (il maglione infeltrito al punto giusto di Lo Cascio è un dettaglio da costumista di Visconti) ed è difficile deconcentrarsi. Non è insomma il classico film italiano scaccia-pubblico né una parodia del film generazionale (la migliore rimane quella contenuta nel primo episodio di Caro Diario), ma un’occasione per meditare sui troppi non detti delle nostre vite e soprattutto su quanto sia facile ferire una persona, anche priva di scheletri nell’armadio o grandi segreti, con le parole.

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