Sole a catinelle, il nuovo proletario di Checco Zalone

27 Dicembre 2014 di Stefano Olivari

Facevamo parte dei 1.140.000 che hanno guardato ‘Sole a catinelle’ in prima serata su Sky a Santo Stefano, quindi ne parliamo senza la compunzione dei massmediologi o la sorpresa un po’ classista del giornalista medio. Con un clamoroso (per una pay-tv) 4,67% di share è risultato il film più visto del 2014 su Sky ed ha superato anche i risultati degli altri film di Checco Zalone trasmessi sull’emittente di Murdoch, cioè Cado dalle nubi e Che bella giornata. Ma avrete già letto tutto sui bollettini della vittoria fedelmente riportati da chi aspira alla pubblicità di Sky, pensando di avere lo stesso target (cioè gente a cui buttare via 70 euro al mese non fa poi così la differenza). Detto questo, lo strepitoso successo anche nelle sale (secondo film di sempre in Italia, dietro ad Avatar ma davanti a Titanic) del film di Zalone non si può spiegare soltanto con lo schema della commedia all’italiana, cioè deridere i vizi dell’italiano medio ma al tempo stesso esaltando la sua volgare medietà in contrapposizione al fumo intellettualoide di presunte elìte. Nei film di Zalone (che è un po’ come dire i film di Totò, perché il regista di tutti e tre è Gennaro Nunziante) c’è sicuramente questo schema, che però da solo non spiega il successo. Una visione di Sole a Catinelle da lettore di Repubblica, non vogliamo dire di MicroMega, si può sintetizzare così: uomo di destra in difficoltà finanziaria, stritolato da meccanismi di destrissima (il credito al consumo), è costretto a portare il figlio in vacanza e dopo una serie di incomprensioni ricostruisce il rapporto fra di loro e con la moglie separata, acquisendo anche coscienza di classe. Perché il venditore di aspirapolvere, come lui nel film, ma anche quello di fondi di investimento o di qualsiasi cosa, anche se con certi risultati può comprarsi la BMW non è meno proletario della moglie operaia cassintegrata. La grandezza di Zalone, anche nel suo film meno riuscito, è però secondo noi quella dell’inconsapevolezza del suo personaggio: un Forrest Gump pugliese, a suo agio ovunque perché di tutto riesce a cogliere solo il nucleo positivo, che non ha il cinismo della comicità romana né il grottesco di quella milanese, che non ha alcun obbiettivo nella vita se non il consumo. Proprio per questo Zalone è così dentro lo spirito del tempo, al di là di battute modeste tenute in piedi solo dai suoi tempi comici clamorosi: mescola tutto il vissuto del terrone italiano medio (la famiglia che diventa subito familismo, il lavoro inteso come posto, la donna sempre un passo indietro), lo porta spesso al Nord e lo rende divertente sia agli occhi del terrone stesso che del non terrone (dove terrone non identifica il luogo di nascita, ma una visione del mondo), con il minimo comune denominatore del consumo e dell’eterno presente. Una formula geniale, fatta di equilibri sottili e che solo un genio come Checco riesce a tenere un centimetro dietro il razzismo vanziniano (ogni città una maschera) o l’autorazzismo consolatorio che fa la fortuna di tanta comicità regionale. Il terzo film così così, leggerino, ma Zalone un fuoriclasse.

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