Sul filo della demenza digitale

31 Dicembre 2014 di Simone Basso

A dispetto dell’eccellente cifra tecnica di certi prodotti tivù americani, rimaniamo abbastanza scettici di fronte all’estetica e al linguaggio degli stessi. Vedere invece Heimat 3 – un gioiello di memoria pop – ci ha ricordato quanto possano osare i tedeschi in televisione.  Quarantun’anni fa (la vernice catodica fu nell’ottobre 1973) Rainer Fassbinder girò, per WDR, “Welt am draht”. Film in due puntate, ispirato al romanzo “Simulacron-3” di Galouye, è un esempio clamoroso di fantascienza distopica e preveggenza sociale. La vicenda ruota attorno alla genesi, da parte di un istituto cibernetico, di una dimensione parallela che simula il cosiddetto mondo reale. Per dirla con Thorsten Dorting di Der Spiegel, in occasione della riproposizione alla Berlinale 2010: “Il Mondo Sul Filo è una vera e propria meditazione, arricchita con inserti d’azione, sulla natura della paranoia individuale e collettiva nell’era dell’informazione, nata in un momento in cui l’era dell’informazione non era nemmeno cominciata”. Il regista bavarese ci tiene a congiungere il cinema d’autore, “Alphaville” di Godard è il modello più evidente, così come “Je t’aime je t’aime” di Resnais, con il macchinario hollywoodiano. Il risultato è ipnotico e visionario. Fassbinder immagina già le retroazioni più oscene della rete: un sistema che parte dalla presunzione di un potere tecnologico assoluto, che si riverbera viralmente e diventa – alla fine – uno strumento finanziario nelle mani di un’élite. Nella parabola fulminante, bulimica, del geniale cineasta dell’Allgau “Welt am draht” è un culto; Fassbinder, al contrario di molti colleghi della sua generazione, più ideologizzati e manichei, è un autore profondamente politico. Perchè rivela l’oltraggio di un’umanità consacrata e venduta al mercato, dipingendo in modo straordinario i sentimenti, le contraddizioni e i conflitti delle persone. Con l’asterisco che, sei anni dopo, realizzerà – proprio per la rete di Colonia e la Rai – il suo capolavoro (“Berlin Alexanderplatz”), il discorso ci introduce a un argomento di attualità ma non troppo.

È difatti ancora sottotraccia una discussione seria e costruttiva sul web e l’industria digitale, malgrado – negli anni più recenti – si sia allargata a macchia d’olio una letteratura critica. O sul dilagare degli usi e costumi imposti, in ogni settore, dai soggetti che in Francia hanno ribattezzato Gafas (un acronimo che mette in fila i quattro giganti Google, Apple, Facebook e Amazon). Il motivo è banale: l’immaginario potentissimo di internet ha ridisegnato la nostra sfera pubblica e privata. Un limbo sterminato che mette assieme iperconsumismo, istanze libertarie ed evasione infinita. Un buco nero nel quale tutti i meccanismi sono liquidi, velocissimi, quindi plasmabili (e plagiabili) con la logica ferrea del quantitativo e dell’algoritmo. Eppure i dati non mancherebbero, a cominciare dal futuro (prossimo) del lavoro. Il sasso nello stagno che ha fatto più rumore è stato quello di Jaron Lanier, ovvero un pioniere dell’era informatica. Che si è attirato le critiche più feroci per aver descritto l’ignoranza, l’impreparazione culturale, la superbia dei nuovi guru. Pensa meglio di come scriva l’ex consulente Microsoft, ma il casus belli è l’esempio della Kodak. Il marchio, prima di sbarcare (…) con la prima macchina fotografica digitale, valeva 28 miliardi di dollari e impiegava 140.000 lavoratori. Dopo la bancarotta, il ruolo guida e la sua funzione sono stati rilevati da Instagram, una piattaforma che nel 2012 – quando fu comperata da Facebook – contava 13 (!) dipendenti.

Sono cifre impietose che descrivono una deflazione paralizzante, malgrado il parere di Larry Page (cofondatore e amministratore delegato di Google): “Anche se molti posti di lavoro andranno distrutti, in breve tempo è probabile che ciò sia compensato dal costo decrescente delle cose di cui abbiamo bisogno”. In attesa che qualcuno ci spieghi la vera funzione del camionista digitale (Amazon) che sta depauperando l’industria editoriale, dopo aver distrutto quella musicale (il Cavallo di Troia si chiamò Napster), citiamo l’ottimo saggio di Douglas Rushkoff “Present Shock”. Rushkoff, tutt’altro che apocalittico, descrive il mutamento (epocale) della cultura popolare. Il nuovo linguaggio, le sue opportunità di sviluppo, nonchè l’ortodossia del presente continuo, dell’essere umano gadget. Particolarmente azzeccata la descrizione del collasso narrativo, del trionfo del cut up (soprattutto involontario) sulla (vecchia) realtà. E la fine delle controculture, ormai inglobate in una digifrenia isterica che toglie loro il tempo della sperimentazione e della crescita. Ancor più ambizioso Byung-Chul Han, professore dell’Universitat der Kunste di Berlino: se ci si adegua a uno stile duro, “La società della trasparenza” denuncia l’horror vacui di un apparato che, sotto l’apparente accessibilità della conoscenza, seppellisce secoli di filosofia occidentale. I temi sviluppati sono quasi senza soluzione di continuità: se le strade dell’elusione fiscale sono stranote, quelle del coltan (il petrolio del tecnosviluppo) non hanno un nome, al pari di tutto ciò che ha a che fare con Madre Africa.

L’ambito neuropsichiatrico è in divenire e in effetti stiamo lavorando per loro. Manfred Spitzer, autore dell’eloquente “Demenza digitale”, è da almeno un lustro una specie di Don Chisciotte delle neuroscienze applicate all’utilizzo (scriteriato) delle tecnologie. Smonta alcune leggende metropolitane sulla scolarizzazione attraverso il computer e denuncia l’incremento dei disturbi nell’apprendimento dei ragazzi. Bombardati, come i loro genitori, da un universo ludico che promette loro il nirvana condividendo e strisciando il dito. Fagocitati da un sapere istantaneo (un ossimoro) che è superficiale e quasi mai ermeneutico. Curioso che i libri di Spitzer siano stati contestati, in Germania, soprattutto dal Partito Pirata, cioè l’entità politica più postmoderna e giovane di tutte. Nemmeno internet fosse una creatura divina e Steve Jobs un novello Gesù Cristo. Evidentemente non hanno mai visto “Welt am draht”. Quindi non capiranno che forse c’è un pezzo di Fred Stiller, il protagonista dell’opera fassbinderiana, un po’ Lemmy Caution, parecchio Numero Sei, in ognuno di noi.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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