La guerra della Reyer

2 Agosto 2014 di Stefano Olivari

I due scudetti della Reyer Venezia, stiamo parlando di pallacanestro, sono arrivati nelle stagioni 1941-42 e 1942-43, ma non sono certo trofei svalutati da quanto stava succedendo nel mondo e per succedere in Italia. In quella squadra giocavano personaggi che sarebbero diventati monumenti di questo sport, come Sergio Stefanini ed Enrico Garbosi, ma anche giocatori molto avanti rispetto alla loro epoca come Amerigo Penzo e Armando Fagarazzi. Tutti veneziani, tranne Stefanini che era nato a Marostica ma che a Venezia era approdato giovanissimo. Scudetti che sarebbero potuti essere tre, ma quello del 1943-44 non fu omologato perché nel frattempo l’Italia si era spaccata. Inutile mitizzare il passato, meglio conoscerlo e poi vivere il presente. Per questo la lettura di ‘Tiri liberi – Venezia, la Reyer e gli scudetti della pallacanestro, tra Guerra e Resistenza’, il libro di Alessandro Tomasutti dedicato a quegli scudetti, è molto interessante. Racconta una pallacanestro ancora non influenzata dal modello americano e che non dava da vivere nemmeno ai suoi protagonisti più forti. Un viaggio bellissimo in un’epoca bruttissima, che il giornalista veneziano non può dimenticare anche se non esagera nell’aprire parentesi extra-sportive. Al termine di questo viaggio gli abbiamo telefonato per commentare insieme l’opera. Purtroppo non è una marchetta, visto che dopo tutto il non facile lavoro di ricerca e di scrittura su episodi in gran parte controversi il libro è gratuitamente a disposizione di tutti gli appassionati di storia dello sport. Basta andare sul sito dell’Associazione Culturale Costantino Reyerper poi scaricare o stampare il pdf. Bene per gli interessati e gli appassionati, male in generale perché un libro come questo meritava un editore vero o qualche sponsor almeno locale.

Signor Tomasutti, sul piano sportivo come nacquero i due scudetti della Reyer? Perché una squadra che non aveva mai sfiorato il titolo prima e non lo avrebbe più sfiorato dopo si ritrovò al vertice della pallacanestro italiana?

Fondamentalmente perché quella Reyer si trovò tutti insieme giocatori fortissimi, da Stefanini in giù, oltre che cresciuti in casa: come avvenuto in tanti altri casi nella storia dello sport, una generazione molto superiore alle altre in buona parte per caso. E poi per l’innovatività del suo gioco, che mi è stata spiegata anche da Sandro Gamba. In uno sport dove le difese erano tutte difese a zona statiche, la Reyer di Carmelo Vidal difendeva individualmente e nessun attacco, all’epoca, aveva le giuste contromisure. In attacco invece la diversità di quella squadra era quella di eseguire qualsiasi azione velocemente, azzardando molti più palleggi di quanti fossero consigliati dagli allenatori del tempo: una rivoluzione, visto che di solito gli attacchi erano fondati su passaggi da un giocatore fermo ad un altro giocatore fermo. È curioso che giocassero quasi da americani prima di avere mai visto un solo giocatore americano. Di più: su alcuni quotidiani romani degli anni Quaranta ho letto articoli che paragonavano le selezioni di militari statunitensi alla Reyer campione di pochi anni prima.

Quanto valeva la pallacanestro nella società italiana di quegli anni?

Lo sport dell’era fascista era una piramide a tre livelli. Al più alto stava lo sport-spettacolo, quello funzionale al consenso: da Carnera a Bartali, da Meazza a Piola, al di là di come la pensassero politicamente la logica era quella. In basso c’era una base davvero immensa di praticanti, da quelli inquadrati nelle organizzazioni giovanili fasciste, cioè quasi tutti i giovani italiani, agli universitari. Un sistema capillare, che coinvolgeva tutti. In mezzo c’era lo sport delle società, più o meno polisportive, che era indubbiamente schiacciato sotto tutti i profili. La pallacanestro apparteneva proprio a questa terra di mezzo, con tutte le difficoltà connesse.

Quale era l’estrazione sociale dei giocatori?

Erano quasi tutti della classe media, della media borghesia cittadina. Molti sarebbero diventati impiegati, qualcuno imprenditore. Nessuno era di estrazione popolare, ma è altrettanto vero che la pallacanestro non era uno sport di elìte. Nel suo statuto, fra l’altro, la Reyer aveva dal 1872 (la sezione pallacanestro è nata nel 1925) l’obbiettivo di coinvolgere nello sport gli operai e proprio le classi medie.

Lei nel libro scrive che alcune squadre erano appoggiate dal regime, come ad esempio la Virtus Bologna o la Bruno Mussolini Parioli Roma che aveva fra le sue stelle un Vittorio Gassman ventenne. Su quali basi lo afferma?

Intanto dal riscontro mediatico, ogni vittoria della Virtus o della Mussolini veniva esaltata in maniera incredibile dai giornali sportivi. Non solo in rapporto alla Reyer, ma proprio in rapporto all’importanza nulla che la pallacanestro aveva sui media dell’epoca. Poi le cronache sono piene di partite finite in 4 contro 5, di cronometri che a volte corrono e a volte si fermano. Non è che ce l’avessero con la Reyer, è che c’erano squadre ritenute più vicine al regime.

Lei parla molto di Venezia, oltre che della Reyer. La città visse il conflitto in maniera diversa rispetto al resto d’Italia?

Sì. Venezia fu in qualche modo risparmiata, non subì i bombardamenti subìto ad esempio da Treviso o da Mestre, per rimanere nel Veneto. È del resto questo uno dei motivi per cui lo sport veneziano riuscì a resistere qualche mese oltre l’8 settembre e ad arrivare fino al 1944.

Perché nel 1946 il nucleo storico della Reyer si divise?

Molti avevano bisogno di un lavoro vero. Stefanini emigrò in Brasile, dove aveva dei parenti, per giocare nel Fluminense, prima di tornare in Italia e contribuire alla nascita del mito del Borletti. Garbosi diventò il primo allenatore a vincere uno scudetto a Varese, nel 1960-61, poi andò a dirigere la All’Onestà Milano. Di certo nella Venezia del 1946 non esistevano le condizioni per vivere di pallacanestro. Ma quella squadra ha lasciato qualcosa di magico nella palestra della Misericordia, un edificio del Cinquecento dove si sono giocate partite di serie A fino al 1977, prima di andare all’Arsenale. E non solo lì, perché se il rapporto profondo che c’è anche oggi fra Venezia e la pallacanestro nasce proprio dalla Reyer dei tempi di guerra. Per questo trovo sia giusto conoscerla. 

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