Masters of Sex, il problema è la lunghezza

19 Agosto 2014 di Stefano Olivari

Fra uomini tutti di un pezzo e donne sante subito, non vedremo mai in prima serata su Rai Uno la storia di William Masters e Virginia Johnson, la coppia di ricercatori che negli anni Sessanta con il loro citassimo studio ha cambiato il modo in cui si pensa al sesso. Ma questo non toglie che la loro vicenda umana e scientifica sia molto interessante, pur avendo il respiro di un film e non di una serie in dodici episodi (con seconda ondata in arrivo), quindi il ripasso fatto su Sky Atlantic non è stato noioso. Il lavoro-ossessione di Masters (interpretato da Michael Sheen, quello che per noi sarà sempre il Brian Clough di ‘Il maledetto United’), ginecologo di fama nazionale e sposato con Libby, inizia negli anni Cinquanta alla Washington University di St. Louis, dove la Johnson (Lizzy Caplan) dopo vari matrimoni e vicissitudini personali é approdata come segretaria. Masters la coinvolge nel suo progetto di ricerca, affascinato dalle sue intuizioni e dalla sua libertà di pensiero in materia sessuale, progetto che consiste nell’osservazione dell’attività di decine di coppie (formate a tavolino, in maniera casuale), analizzate dal punto di vista cerebrale e cardiaco nella varie fasi. Come si può immaginare, la ricerca per partire deve essere in sostanza nascosta ai dirigenti del college (non al rettore, che Masters tiene in pugno), ma appena i primi risultati vengono pubblicizzati scoppia il finimondo e Masters passa dei guai che non riveliamo mentre il rapporto la Johnson si evolve. Di certo non è spoiler sottolineare la conclusione all’epoca rivoluzionaria dello studio, cioè la natura oggettivabile di un orgasmo femminile di cui negli anni Cinquanta molte donne nemmeno sospettavano l’esistenza. Poi è chiaro che in questa ottica tutto il sesso viene banalizzato, ma non bisogna dare agli sceneggiatori colpe che sono della medicina e della visione meccanicistica che ne hanno molti dottori e quasi tutti i pazienti. La storia, anche personale, di Masters e Johnson, influenza ovviamente il giudizio su una serie che fa respirare certe atmosfere alla Mad Men anche se in tutt’altro contesto (c’è differenza fra il mondo dei pubblicitari di Madison Avenue e i rituali della provincia, non solo americana), che non è affatto volgare ma che ha il grande difetto di tirarla un po’ troppo in lungo con storia principale e sottostorie, cedendo ogni tanto a un macchiettismo alla Montalbano. Ci viene in mente il geniale ‘Dai dai dai, tu non vieni mai’ cantato da Maurizia Paradiso nello studio a fianco di quello in cui sul finire degli anni Novanta ci occupavamo di calciomercato per una tivù che non a caso sarebbe fallita. Bel gioco dura poco. Stiamo parlando della serie…

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