El Condor è passato

3 Giugno 2014 di Simone Basso

Trieste bellissima, il fascino di Piazza Unità d’Italia ha pochi eguali anche nel Bel Paese, accoglie un Giro che per molte ragioni potremmo definire storico. Una corsa della gioventù (quattro under 25 nei primi sette della classifica generale e quindici tappe vinte da corridori sotto le ventisei primavere..), con la maglia rosa che – per la primissima volta in novantasette edizioni – ha sempre fasciato il busto di un atleta extraeuropeo. Canada (Tuft), Australia (Matthews ed Evans), Colombia (Uran e Quintana). Come previsto in sede di presentazione, la settimana e mezzo finale dal profilo altimetrico arcigno, una specie di Clasico RCS (vogliamo i diritti del neologismo..), ha premiato la tribù andina. Curioso che pure gli italiani, alla ricerca dell’erede dello Squalo Nibali, si siano esaltati per le prodezze di un altro isolano, Fabio Aru, che – per caratteristiche tecniche – assomiglia a un colombiano doc.

Quintana, sul podio con Rigoberto Uran e il sardo dell’Astana, ha mantenuto le promesse. Al di là delle polemiche, sterili, Nairo è diventato il padrone del Giro con l’impresa nella Ponte di Legno-Val Martello: un numero clamoroso, settanta chilometri di assalto in una frazione che rappresentava un unicum. La brevità del percorso (139 chilometri), due mostri alpini di alta quota (Gavia e Stelvio), il nevischio, la pioggia e il freddo. El Condor quel giorno, per coraggio, sagacia tattica e garun, è stato esaltante. Salendo Martelltal, gemello di Lucho Herrera nella silhouette, soprattutto en danseuse, ha illustrato alla perfezione le differenze tra lui e quelli della generazione di pionieri che, trent’anni fa, sdoganarono la scuola sudamericana. Quintana, che in salita sfrutta un rapporto peso-potenza straordinario, legge benissimo il momento agonistico. Un altro pianeta quindi rispetto ai corridori naif, selvatici, che negli Ottanta esordirono nel vecchio continente. Freddo, quasi calcolatore, il moro è bravo a muoversi nelle pieghe del plotone e a suo agio in discesa. La stagione scorsa, al Giro dei Paesi Baschi, ad Arrate, un traguardo taboga dopo lo scollinamento, staccò sull’asfalto bagnato Contador e soci. Il resto è un motore da grimpeur eccelso: la cronoscalata della Cima Grappa, uno scenario eccezionale, il Mont Ventoux italiano, è stato un manifesto della sua classe purissima. O un deja vu per chi, un anno e mezzo prima (Ottobre 2012), lo vide dominare sul San Luca, un’erta che non mente mai, al Giro dell’Emilia.

Nairo Alexander Quintana Rojas ha compiuto ventiquattro anni il 4 Febbraio scorso. La sua storia spiega la Colombia dei Novanta meglio di mille inchieste giornalistiche: fu la povertà a metterlo su una bicicletta. I Quintana vivevano a La Concepcion, nei sobborghi di Combita, e non avevano i soldi per il bus che portava alla scuola più vicina. Così, per percorrere quei sedici chilometri, che diventavano trentadue col ritorno a casa (su una rampa all’otto per cento di pendenza..), il babbo Luis gli comprò una mountain bike usata: col senno di poi, i trenta dollari più importanti spesi dalla famiglia. Nairo crebbe con Ignacio Velez alla Colombia Es Pasion (oggi 4-72) e divenne Quintana, ras delle montagne, al Tour de l’Avenir 2010. Quella vittoria, al pari della leggendaria vernice di Alfonso Florez nel 1980, annunciò stavolta il ritorno di tutto il movimento.

I colombiani vivono da emigranti in Europa, magari insieme: l’altroieri, a Pamplona, con Uran, Quintana e Sergio Henao nell’appartamento che fu dello sfortunato Mauricio Soler… Malgrado le rivalità, i sudamericani fanno gruppo, anche se in squadre diverse, e le alleanze trasversali durante il Giro 2014, talmente evidenti da strappare un sorriso ai vecchi suiveur, ne sono la conferma. Quel legame atavico con le proprie origini, Nairo lo ribadisce investendo una parte dei guadagni nella formazione giovanile che lo fece esordire e che adesso si chiama Boyacà-Nairo Quintana. Sembrano passati eoni da quando il padre, squattrinato, per iscriverlo alle prime competizioni, chiese agli organizzatori delle stesse di tenersi i premi vinti dal figlio… Se il futuro prossimo si chiama Vuelta, l’obiettivo, il sogno, è la maglia gialla ai Campi Elisi. Quest’anno, in una Movistar dagli equilibri fragili, ha lasciato la missione (impossibile) ad Alejandro Valverde. Tra non molto però, il più forte scalatore delgi Anni Dieci, tornerà in Francia per chiudere il cerchio. Intanto l’eroe dei due mondi, l’indio di rosa vestito, parla già da ambasciatore orgoglioso della sua terra: “Colombia es no guerra, no es nada malo, es amor…”.

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 2 Giugno 2014

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