Il Giro per caso di Carlo Clerici

13 Maggio 2014 di Simone Basso

Il Giro 1954, il secondo vinto da un elvetico (anzi, da uno straniero…), non è una semplice vicenda sportiva. La corsa rosa più controversa e criticata di sempre, nel contesto (quasi alla fase finale) dell’Era d’Oro del ciclismo tradizionale, ripropone i temi principali dell’epoca nemmeno fossero un flusso di coscienza di un racconto.

Per leggere meglio le viscere di ciò che accadde, il prologo indispensabile è la vernice del Giro d’Italia dell’anno precedente. La gara organizzata da un giovane Vincenzo Torriani era poco distante (come mai più sarà…) dal prestigio del Tour. Ad affiancare le equipe di marca, in parallelo alla Grande Boucle, decisero di proporre alcune formazioni nazionali (Francia, Spagna, Belgio, Olanda) guidate dai cittì ufficiali. La composizione del combo svizzero fu problematica: siccome il diesse era Learco Guerra, pigmalione del rivale Koblet, Kubler alzò considerevolmente la posta in palio… Vezzo indispensabile di quell’evo erano le prebende ai campioni: con l’eccezione del Tour (comunque una vetrina essenziale per i circuiti ricchissimi di Agosto) rappresentavano la regola. Ferdi, per schierarsi al via, chiese e ottenne un milione di lire di ingaggio, col bonus di uno e duecentomila d’indennizzo alla Fiorelli. Lo zurighese portò con sè Graf e Croci Torti e, alla primissima tappa, una volta assicuratosi il gettone, sceneggiò (…) il ritiro con Graf. Hugo, ispiratissimo, colla gamba asciutta come nel biennio irripetibile (1950-51), si ritrovò a correre da isolato o quasi. Perse la maglia rosa solamente al penultimo giorno, salendo lo Stelvio, da un grande Coppi che infranse il patto di non belligeranza siglato il pomeriggio prima, a Bolzano, quando Koblet gli regalò la tappa.

Uno dei pochi che aiutarono il “falco biondo” nella sfortunata campagna italiana fu un (ottimo) corridore della Wolber, un certo Carlo Clerici. Che, dopo essere stato licenziato dal gruppo sportivo italiano, giurò fedeltà alla Condor. Eccolo allora, nel Marzo 1954, definitivamente nel clan di Guerra e Koblet e col passaporto rossocrociato. La sua era una vicenda famigliare comune, ahinoi, nell’Italia del ventennio mussoliniano: il padre, antifascista, venne confinato a Lipari e poi cercò fortuna nella Confederazione Svizzera. Lì trovò il pane e l’amore. Carlo crebbe a Zurigo, lavorando nell’officina del babbo che riparava bici: un destino già scritto.

Il Giro più lungo della storia (4337 chilometri) fu disegnato per il sesto trionfo di Coppi, un primato assoluto, l’ennesimo del più grande ciclista del Novecento. Ma i temi del 1953, nella pancia del Giro 1954, deflagrarono… Lo scenario era monopolizzato dai soliti nomi, che si convinsero di poter addomesticare la contesa a mo’ di reality. Così non fu pure per un’indisposizione che il Fausto stesso patì, in rosa dopo aver vinto con la Bianchi la cronosquadre inaugurale, durante la seconda tappa Palermo-Taormina: dietro il primo arrivato, Pipazza Minardi, furono proprio gli svizzeri ad attaccarlo (Schaer, Clerici, Huber). La vendetta di Koblet si stava piano piano materializzando. Eppure quello che avvenne, cinque giorni dopo, ebbe dell’incredibile. Anche se a leggere la storia della corsa non fu sorprendente: la Bari-Napoli, nell’apatia dei cosiddetti favoriti, a venti minuti dal nuovo leader Voorting, rappresentò l’anticamera della sesta frazione. Da Napoli a L’Aquila. La fuga di Clerici e Assirelli, coi campioni a spasso, assunse proporzioni ciclopiche: all’arrivo, tappa e maglia per Carlo, i migliori (?) beccarono 31 minuti.

Il fioretto, le rivalità tra italiani (soprattutto Coppi e Magni), produssero una classifica di vertice inscalfibile già dopo una settimana. Perchè il Clerici, domestico di lusso, aveva comunque gambe e motore non dissimili da quelli dei più famosi; nel 1952 si era imposto in una prova contro il tempo severissima, il Grand Prix Suisse. Passista di alto livello, più che sufficiente in salita, ebbe la scorta (nobiliare) di Koblet nei (pochi) momenti difficili. Per esempio nel tappone dolomitico Castrozza-Bolzano, quando limitò i danni dell’offensiva di un Coppi in gran spolvero. Il Campionissimo, con addosso l’iride che aveva conquistato a Lugano, fece un bel numero, platonico ma dimostrativo: sarebbe stata l’ultima impresa solitaria della sua carriera al Giro.

Il resto invece furono punture di spillo e trattative febbrili, sottobanco, per i denari. Hugo, che qualche dì prima delle montagne aveva battuto il Fausto nella crono individuale gardesana, vendicò Bormio in un’atmosfera surreale. Cloroformizzata sulle strade, quanto furente (per le polemiche) nella carovana e sui giornali. L’apice beffardo si raggiunse nella Bolzano-St. Moritz, in teoria la giornata cruciale, in pratica un viaggio in comitiva ad alta quota. Lo sciopero del Bernina, col gruppo (quasi) compatto che salì l’ultima vetta della corsa, fu una protesta orchestrata dai mammasantissima per gli emolumenti promessi e mai ricevuti. Al traguardo, un arrivo concertato a priori, giunse solo soletto Koblet, poi Ginettaccio Bartali, infine i resti (…) del plotone. Koblet ruppe gli indugi quando la carreggiata fu invasa da una mandria di vacche… Orio Vergani, ironico e puntuto, scrisse che riuscì con miracolose sterzate a evitare le cornate.

Al Vigorelli, in un giorno di festa alla Tati, finì a fischi e pernacchie. Per tutti tranne Van Steenbergen (quattro tappe in saccoccia e una marea di traguardi volanti) e Clerici. Il Carlo il Giro lo meritò, ma non gli cambiò la vita professionale; rimase ligio ai doveri di scudiero, col permesso (ogni tanto) di cercare la gloria personale. Nel 1956 fece suo il Campionato di Zurigo, la classica in linea casalinga più prestigiosa. Si ritirò appena ventinovenne e senza rimpianti: andò oltre nell’inverno 2007, lui, un gentiluomo che visse un’esistenza tranquilla. L’esatto opposto del suo capitano: Koblet, tenebroso e inquieto, avrebbe trovato la morte (a 39 anni) in un incidente d’auto che suggerì addirittura l’ipotesi suicida. Lo strascico immediato più clamoroso del Giro fu l’inibizione dell’UVI (la Federazione Italiana) verso i suoi tesserati: difatti, al Tour, non si schierarono corridori italiani. Ci vorranno quarantun’anni per rivedere un elvetico in rosa a Milano: nel 1995, Tony Rominger divenne il terzo rossocrociato ad aggiudicarsi il Giro d’Italia. Un’edizione durissima, caratterizzata da un tempo invernale, nonchè manifesto ideologico del ferrarismo che dominò quel periodo.

Pubblicato il 9 Maggio da Il Giornale del Popolo

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