La fenice rinasce: intervista a Rodolfo Santandrea

20 Novembre 2013 di Paolo Morati

Rodolfo Santandrea

Mancava ormai poco al compimento del nostro tredicesimo anno di età quando fummo folgorati sulla via di Sanremo 1984, oltre che da Anna Oxa che cantava Non scendo (scendendo le scale), da un personaggio visibilmente eccentrico dal nome di Santandrea. Categoria nuove proposte, voce lirica, aspetto elegante, ritmica elettronica e testo romanzato. La ricetta era perfetta per colpirci, sempre pronti a entusiasmarci per le cose più di nicchia, come appunto La Fenice, brano composto dall’allora ventiduenne nato a Faenza assistito da Riccardo Cocciante. Il volo del mitologico uccello purtroppo non superò lo scoglio delle giurie ma si meritò il premio della critica in una edizione che vide affermarsi tra i giovani Eros Ramazzotti con Terra Promessa.

Rodolfo Santandrea (questo il suo nome completo) aveva tutte le carte in regola per meritarsi attenzione, considerata la sua originalità, proprio a cominciare da quell’esordio sanremese arrivato dopo un Q Disc e la partecipazione a Castrocaro. La Fenice a parte, conservata su una musicassetta del Festival, le nostre orecchie lo persero però di udito per poi scoprire dopo qualche stagione che in realtà aveva continuato a cantare. Questo grazie ad Aiutatemi amo i delfini (1989), album che fronte arrangiamenti segnava un cambio di rotta, con strumenti del tutto veri. Intatta si manteneva però l’originalità della sua proposta così come la sensibilità dell’uomo confermata da interviste dove traspariva una certa timidezza di fondo e un deciso distacco artistico. Bello il disco, ricco di melodia e testi fuori dagli schemi, con un sottofondo di sofferenza e malinconia.

E poi ancora una pausa discografica di sei stagioni fino ad Anni (1995), altra proposta elegante, che però non trovò di nuovo spazio tra il mainstream dilagante. È grazie a questo album che abbiamo sostanzialmente ri-riscoperto Santandrea perdendolo per l’ennesima volta, quasi volesse sfuggire all’abbraccio di quel pubblico che dal 1984 lo rincorreva con la mente nonostante le difficoltà nel reperire la sua musica. Per poi sorprendere ancora una volta con un progetto questa volta totalmente in chiave lirica intitolato Santandrea e la Camerata Veneziana, dove la sua voce riproponeva le modulazioni più nobili, su un repertorio eterogeneo spaziante da Mozart a Rossini.

Facendo un salto all’indietro un’ultima citazione la lasciamo però per quello che è probabilmente il lavoro meno conosciuto e più sperimentale di Santandrea: Ricordi e sogni del mio vescovo (1985), un ventaglio di suoni e parole da ascoltare con riguardo.

Se oggi dovesse capitarvi di scorgere un violinista che in piazza impazza con la sua musica guardatelo bene, potreste trovarvi proprio di fronte a lui, che il 7 dicembre sarà ospite insieme al quintetto barocco della Camerata Veneziana, alla finale del Premio Fabrizio De André. Nell’attesa lo abbiamo cercato e qui di seguito potete leggere una lunga intervista in cui, oltre che della sua vita, parla di musica e libertà, esprimendo opinioni personali e offrendo spunti di discussione.

Cominciamo dal Santandrea di oggi e il suo rapporto con la musica. Di che cosa si sta occupando e quali sono i suoi progetti?

Mi occupo di ampliare il mio raggio d’azione. Da circa sette anni, rientrato dall’ultimo viaggio in Giappone – Tokyo, Yamanashi e Osaka per alcuni concerti – ho avvertito la necessità di un contatto diretto col pubblico; in sostanza, scendendo dal palco ed uscendo dal giro dei media ho percepito che qualcosa nel nostro Paese non funzionava, qualcosa di essenziale. Ho quindi iniziato un percorso come violinista solitario in gran parte del Centro e Nord Italia, da Venezia a Roma. Tenendo conto che la musica non è solo ed esclusivamente motivo, più che legittimo, di svago o sano divertimento, ma anche veicolo di speranza e di bellezza. È come se il suo ruolo sociale fosse quello di portare un augurio a chi ha fortuna di poterlo udire per un futuro migliore senza alcuna distinzione di casta, classe sociale o posizione di potere. La canzone tocca lo spirito, esattamente il contrario di ciò che fa la politica. Muove e risveglia di più la coscienza una canzone ben fatta, ben scritta e bene interpretata che non una inutile e squallida seduta in Parlamento. Per far questo, in maniera molto semplice, mi sto occupando di trovare date. Concerti, matrimoni, feste private, celebrazioni in genere dove il pubblico sia predisposto all’ascolto, luoghi e piccoli o grandi eventi, non importa, dove sia ‘necessaria’ la presenza di uno o più musicisti. Sarebbe interessante delegare questo ruolo ad altri ma ormai, dopo tanti anni, ho lasciato perdere. Ho capito che se un musicista vuole suonare e guadagnare dalla propria professione ‘deve’, innanzitutto, trovare il luogo adatto e le condizioni favorevoli in cui presentare il proprio lavoro, diciamo ‘esibirsi’ o meglio concertare; per cui, trovare le date è ormai la mia principale occupazione. Nessuno lo fa in mia vece quindi devo fissare e chiudere i contratti di persona.

Se guardiamo alla sua storia non si può certo dire che si sia ripetuto. Partiamo dal primo QDisc a cui ha poi seguito la partecipazione a Sanremo con la Fenice. Come inquadrerebbe questo suo primo lavoro da professionista, come è nato e quali sono state le ispirazioni che hanno portato alla sua scrittura?

Il primo QDisc, quello che conteneva Amsterdam e i marmi per intenderci, nacque in una condizione di estrema necessità. Avevo lasciato casa ed ero molto giovane. Facevo la spola tra Udine, Venezia, dove avevo amici fidati, la Romagna, da dove durante i fine settimana partivo per andare a suonare in orchestre da ballo, Bologna, dove studiavo in Accademia di Belle Arti e Pisa, dove mi era stata affidata una cattedra e insegnavo. Capitò l’occasione di scendere in Sicilia e Calabria per una tournée estiva, avevo queste bozze di idee musicali, non sembravano proprio canzoni, per quel che mi riguarda erano più che altro temini d’opera. Sentivo una estrema necessità di comunicare questo mio mondo e durante quel tour estivo in Sicilia iniziai a esporre quelle idee musicali in pubblico. Mi sentivo un cantastorie. La risposta fu talmente positiva che mi portò alla pubblicazione del QDisc con Fonit Cetra a Milano.

Relativamente a La Fenice, brano con cui vinse il premio della critica a Sanremo, è interessante approfondire da un lato la collaborazione con Riccardo Cocciante ma anche sapere la genesi di testo e musica di una canzone così d’avanguardia per l’epoca. Ci può raccontare come nacque?

Forse non l’ho mai dichiarato all’epoca della sua pubblicazione, quasi trent’anni fa, ma La Fenice fu l’ultima canzone che scrissi dopo tutto l’album Santandrea. Riccardo Cocciante e io lavoravamo nello stesso staff di produzione, Ennio Melis (già direttore generale dell’RCA per trent’anni circa, l’inventore dei cantautori) era il nostro manager, nello stesso staff ruotavano Patty Pravo, Lilly Greco (musicista compositore noto per la lunga collaborazione con Lina Wertmuller), Gabriella Ferri appena rientrata dal Brasile. C’erano anche Venditti, De Gregori, Morricone e molti altri artisti dell’ambiente romano. Io avevo appena terminato le registrazioni del primo album, avevo lavorato con Amedeo Tommasi (pianista jazz e compositore di colonne sonore) per oltre sei mesi, notte e giorno, per realizzare gli arrangiamenti delle nove canzoni che Ennio scelse di pubblicare con l’RCA. In realtà, poi, pubblicammo con Fonit anche quel secondo lavoro perché in tale periodo Mara Maionchi era direttrice artistica della Fonit a Milano e fu la prima dell’ambiente che mi aveva sentito, incoraggiandomi a continuare, cosicché ricordo che insistetti per pubblicare in Fonit.

Insomma mi prendevano un po’ tutti in giro questi grandi nomi, perché mi chiamavano il ragazzo di bottega, il genietto; comunque, per me che arrivavo a Roma dalla provincia era un onore poter fare questo mestiere, anche se ora devo dire, con un po’ più di esperienza, che in quegli anni mi spaccavo veramente le ossa dal lavoro. Avevo una tale fame di realizzare che arrivavo a stare in studio da Amedeo fino a sedici ore al giorno, a volte anche di più. Povero Amedeo, chissà come l’ho massacrato senza volere… Ci puoi crepare quando, a te, cinquantenne pianista con esperienza jazz internazionale, affiancano un produttore autore compositore e interprete di ventidue anni appena, che si crede il padrone del mondo (così ero io) e non ha la minima esperienza. Il vecchio (Amedeo), tirava come un dannato finché poteva, in studio si accendeva tre Muratti alla volta e le lasciava in giro a sbruciacchiare i tasti dei suoi Steinway, Kawai, Bosendorfer, Oberheim, Clavinet e tutte quelle diavolerie di strumenti che suonava di continuo, saltando letteralmente da uno all’altro per cercare di accontentare l’orecchio del compositore, mai contento, con idee chiarissime; un po’ un genietto malefico, così dovevo essere visto dagli altri.

Ennio Melis del resto era stato chiaro: realizzare esattamente ciò che Santandrea esige. Amedeo dopo sei mesi non ne poteva più ma facemmo un ottimo lavoro, di questo sono certo, tanto che Cocciante andò da Ennio e gli disse: “Ma chi è quel ragazzino che lavora per te?”. Ennio, che mi difendeva a spada tratta (ero il suo puledro di razza) rispondeva: “Ragazzino? Quello è un compositore che fa sul serio mica come te e Lucio (Dalla) che siete due pippe nere, che volete scrivere e siete due ignoranti, quello vi darà del filo da torcere a tutti. Quel ragazzino è il futuro, quando voi non esisterete più musicalmente, perché vi ho creato io, lui ci sarà ancora e svetterà su tutti”.

E la reazione quale fu?

Ennio era un grande, diceva sempre: “Basta far leva sull’ego infiammato degli artisti, gli artisti hanno un ego che fa paura, vedrai come reagirà Riccardo dopo quello che gli ho detto”. Cocciante aveva Cathy, sua moglie, che trattava tutto in sua vece ed era un carattere molto solitario, così una mattina venne in ufficio da Ennio e mi disse: “Ho ascoltato il tuo lavoro, mi piace molto il tuo modo di lavorare, io di Opera non ci capisco molto, io scrivo canzoni, però ho messo giù quest’idea”, e mi portò una cassetta con un giro di accordi e qualche vocalizzo, mi fece ascoltare un temino al pianoforte e mi disse “Perché non la lavorate come hai fatto con le tue canzoni? Cosa ne pensi?”. Io risposi: “Be’, è un onore, lo farei senz’altro volentieri, ma chi paga il lavoro? E io come faccio a pagarmi l’albergo e il ristorante per stare a lavorare da Amedeo? E Amedeo chi lo paga?” Ennio, rideva e diceva a Riccardo: “Te l’avevo detto che questo era uno forte”. Poi disse: “Non vi preoccupate, il lavoro lo produciamo io e Cahty, voi pensate a far gli artisti che al resto ci pensiamo noi”. Che scuola Ennio! Si vedeva che aveva lavorato per il cardinale della Biblioteca Vaticana prima dell’RCA. Comunque alla fine l’idea andò in porto, presi la bozza di Riccardo e la lavorai in studio… poi però serviva un testo, ed era fondamentale che fosse un testo forte. Sapevamo già che il brano che lui avrebbe firmato con me sarebbe poi stato il pezzo proposto all’attenzione della stampa, della critica e dei media.

Insomma inforcai l’idea e dissi: “Questa dovrà diventare una roba rossiniana”. Poi mi misi al lavoro. Nel frattempo, però, dovevo fare anche il servizio fotografico per le copertine del mio album, così Ennio mi presento a Tony Occhiello, un image-maker italo americano appena arrivato da Los Angeles. Con Tony c’era anche Leo Nero, un suo collaboratore per i set e le luci, e Pier Majidas, una ragazza nera di Harlem, con un fascino pazzesco. Andammo in giro per Roma per alcuni giorni a scattar foto in moltissimi ambienti che loro conoscevano e un giorno, vicino alla sala Nervi, parlando con Majidas entrammo in argomenti molto molto profondi, sulla vita e sulla morte. Lei mi parlava come se mi leggesse dentro. Dalla mattina seguente non la rividi mai più; era partita per Parigi, lavorava nella moda come manequin, però quella notte in albergo a via degli Scipioni scrissi La Fenice. Ero sicuro che sarebbe stato il testo giusto per aprirmi la strada, e così fu.

Ad esso è seguito un lavoro totalmente diverso (Ricordi del mio Vescovo), comunque ancora una volta sperimentale, nelle sue trovate ed eredità del passato. Anche il suo modo di cantare si evolve, mantenendo però una impostazione cameristica. A che cosa era dovuto il progetto certamente poco commerciale? E il titolo a che cosa si riferisce?

Alcuni mesi dopo presentammo il pezzo a Sanremo. Fu un’idea di Pippo Baudo, devo dire ottima perché l’effetto fu esattamente quello previsto: premio della critica, stampa che ne parla e via di seguito, ma, fondamentalmente a me e a Ennio interessava produrre, realizzare materiale. Dovevo fare repertorio. Carlo Nistri, il mio primo editore, socio in affari con Melis un giorno mi disse: “Rodolfo, se vuoi capitalizzare devi fare repertorio, avere molto materiale, ora che sei giovane, a ottenere il successo ci penserai quando non avrai più niente da dire, adesso scrivi e realizza”. Io non capivo molto di queste tecniche, dei media e di come potessero suscitare un effetto così immediato e travolgente però avevo avuto la prova che questi metodi funzionavano. Me ne tornai nella mia provincia romagnola, nel mio piccolo mondo antico e, dopo aver smaltito la sbronza del successo con tutti i suoi pro e i suoi contro, iniziai un nuovo lavoro.

All’epoca ero stato catalogato politicamente di destra, solo per il fatto di non essermi allineato con una certa sinistra che non amavo per il suo pressapochismo, per cui, per essere chiari, i Festival dell’Unità pretendevano che andassi a suonare da loro ma non volevano pagare il mio agente. Sicché ne uscì il marchio d’infamia. Non essendomi schierato io, mi schierarono loro; della serie: pensavo a qualcosa tipo ‘chi non è contro di me è con me’, ma i funzionari di partito dicevano a chiare lettere se non sei con noi sei contro di noi. Così non entrai in alcun circuito di distribuzione di spettacoli, quello della cultura dell’apparato di sinistra, il vecchio Partito Comunista.

Me ne stavo rintanato tra le mie colline sull’Appennino Tosco-Romagnolo convinto che quello che un musicista dovesse fare fosse scrivere belle melodie e trovare armonie piacevoli, così iniziai a buttar giù i temi del nuovo lavoro. Ogni tanto scendevo a Roma e ogni tanto Ennio saliva da me in studio. Nacque poco alla volta il nuovo progetto ‘Ricordi e sogni del mio Vescovo’. Ennio conosceva i miei trascorsi, la mia formazione. Vissuto all’ombra di una Romagna cattolica, ne scaturì l’idea di realizzare un concept album che raccontasse l’esperienza vissuta da un giovane cresciuto ospite in casa di un prete, il Vescovo. Molto fu la comunanza fra le nostre esperienze, che ci portò a osare tanto. Ennio subito dopo la Guerra si era trovato sbalzato a Roma da fiorentino che era e l’aveva sfangata grazie alla sua formazione cattolica, io per molti versi ebbi esperienze simili, chierico salesiano per dieci anni in tenera età imparai in quell’ambiente i fondamenti della mia arte. Così decidemmo di improntare tutto il nuovo lavoro partendo da una sorta di confessione rilasciata da un giovane a un padre gesuita. Più che di confessione si trattava della richiesta di un buon consiglio da parte di un giovane un po’ al suo primo affacciarsi al mondo. Realizzai le prime registrazioni in Romagna poi andai a Roma per concludere il lavoro. Non necessariamente doveva essere un disco, non nel senso commerciale del termine; avrebbe potuto anche diventare un libro, un balletto o un film, perché no? L’importante era che rimanesse una sorta di documento essenziale, una sorta di diario del vescovo filtrato attraverso gli occhi del giovane.

In questo lavoro c’è molto lo spirito di Melis. Ennio mi volle far conoscere e frequentare in quel periodo artisti di un certo spessore. Oltre a collaborare con Gabriella Ferri e Patty Pravo, ebbi la fortuna di conoscere e collaborare con Marco Luberti (l’autore di Margherita e Bella senz’anima), con Lucio Quarantotto (l’autore di Con te partirò), poi con Mariangela Melato, Bruno Canfora, Biriaco, Savina e lo stesso Ennio Morricone per gli abbozzi di un paio di colonne sonore. Fu il periodo più intenso per ciò che riguarda la sperimentazione e la ricerca, ne uscì un lavoro che a distanza di tanti anni ancora mi convince per la sua sintesi, per la sua essenzialità, indubbiamente un lavoro senza fronzoli. Certamente senza lamé e paillettes, tuttavia una composizione e un certo numero di buone canzoni che ancora mi intestardisco a considerare pop nella loro essenza. Indubbiamente scartai di lato, avrei potuto fare la locomotiva ma ero un bisonte. Con quel disco rosso, abbiamo voluto dare un segnale, un avvertimento che anche attraverso il pop e la canzonetta si può comunicare qualcosa di importante.

Qualche anno dopo la ritroviamo con l’album Aiutatemi amo i delfini, probabilmente il suo disco più sensibile per quanto riguarda il modo di proporsi, del quale il brano più noto è Un’arancia. Nel contempo fa da supporter ad Edoardo Bennato. Eppure la sua musica rimane comunque tranquilla e appassionata, poco vicina all’elettronica che ha regnato nel decennio che sta per chiudersi, e ancor di più al rumore di certe proposte. In quel momento a che punto era arrivata la sua ricerca musicale?

Con i Delfini ho aperto un nuovo capitolo, abbandonando completamente la musica synt. Ho utilizzato l’elettronica solo in fase di composizione e arrangiamento per lavorare alcune sequenze particolarmente tecniche. Le registrazioni sono state realizzate con strumenti reali. Il clima è assolutamente acustico… Da quell’album esce indubbiamente la mia volontà di virare verso un mondo ‘colto’, le canzoni hanno caratteristiche più liriche, il mondo solitario ed essenziale dei miei lunghi viaggi in automobile su e giù per la penisola italiana. Ho voluto dare una chiave di lettura cameristica a questi brani. La realizzazione con l’orchestra da camera giovanile dell’Emilia-Romagna mi ha inevitabilmente portato a un incontro-scontro col mondo accademico. Attraverso questa esperienza inizio ad avere un dialogo con gli archi, con il loro paradossale e apparentemente anacronistico rigore. Abituato ormai da anni a passare il mio tempo in regia per ‘fare suoni’ mi ritrovo di colpo e per scelta di fronte ai ‘tecnici’ del suono reale. Finalmente, dopo la mia prima esperienza come direttore d’orchestra avuta a Knokke alcuni anni prima, mi riallaccio alla materia musicale viva, con tutti i suoi pro e i suoi contro. Il carattere quasi da sofisti degli esecutori di scuola classica mi trasporta in un mondo che mi incuriosisce molto, un mondo con una logica scientifica ma con un linguaggio assurdo quasi incomprensibile, un linguaggio antico, quasi come se fosse rimasto indietro nel tempo. Per un autore compositore ‘in carriera’ quale ero definito in quel periodo, è quasi vietato affrontare certi temi: la velocità, il dinamismo sono la regola. È indispensabile, secondo le logiche della produzione, migliorare il prodotto (e questo con l’ausilio del suono reale avviene sicuramente) ma anche snellire il processo (e qui purtroppo casca l’asino, che non sono io). La regola dell’industrial design mi impone, per rendere accessibile a tutti e a basso costo il mio prodotto, quindi renderlo ‘pop’, di snellire il processo di produzione ed è qui che inizia il mio lungo viaggio negl’inferi del mondo accademico italiano. Lo scontro è dato dalla mia necessità di essere rapido nella produzione ma la pesantezza della ‘scuola colta’ la rende incompatibile alla regola di mercato. Riesco, tuttavia, a realizzare questo mio primo approccio e devo dire, nonostante l’enorme faticata per registrare con gli archi (mi trovo a trascrivere le parti con l’orchestra in studio), il risultato mi soddisfa.

Mando in stampa l’album e lo promuovo attraverso un tour in cui visito personalmente le cento radio più importanti del Centro Italia e in seguito partecipando appunto al tour di Edoardo Bennato ‘W la mamma’ come supporter. La tournée con Edoardo è veramente sfiancante, ma gli effetti del lancio sono palpabili, vinco il Disco per l’estate ed entro, grazie ad Edoardo e alla Stepping Stone, in novanta piazze importanti nel nostro Paese. Il tour parte da Parma e attraversa più volte tutta l’Italia, Sicilia e Sardegna comprese. Il paradosso sta nel fatto che mi ritrovo sui più importanti palchi del rock italiano, quali quelli calcati con Edoardo in quel suo tour, con un prodotto che va in direzione della musica colta, per lo meno nelle intenzioni. La verità? Su quei palchi volò di tutto, arrivammo a essere rinchiusi nello stadio di Caltanisetta e fui letteralmente colpito e perseguitato quasi come fossi un provocatore reazionario al Palatrussardi di Milano. Beh, insomma la ‘mamma’ che circolava in quel periodo era molto apprezzata dai giovani fan e parlargli di delfini fatti a pezzi li rendeva un po’ nervosi, ma fu un gran tour, presi un bel po’ di grana e me la spesi tutta d’un botto per sistemarmi un po’. Poi mi rimisi a lavorare sul serio. Finita la vacanza mi aspettava il crudo avvento degli Anni Novanta e non ci sarebbe stato niente da ridere.

Gli anni ’90 sono quindi per lei piuttosto travagliati. È stato come ripartire da zero, fino alla pubblicazione di Anni. Un album più moderno nelle sonorità rispetto al passato ma che mantiene la rotta tracciata dal Santandrea musicista e fautore di una evidente espressività lirica. Come lo inquadra questo lavoro rispetto a quelli precedenti?

Più che travagliati gli anni Novanta, almeno agli inizi, sono stati per me la dura prova della vita. Nel novantuno ho perso mio fratello maggiore a cui ero molto legato ed era un po’ il mio modello di rocker maledetto. Morto lui, il silenzio attorno, rimaneva solo la mia fede sul fatto che il futuro sarebbe stato migliore per me, per i suoi figli di tre e cinque anni che aveva lasciato, per i miei figli insomma. La morte di una persona cara così vicina ti fa fare alcuni conti che a volte potrebbero non tornare e quindi, se prima eri un po’ arrabbiato dopo rischi di esserlo molto di più. E la cultura dell’alternativa, dello sballo… se prima mi sembrava stupida dopo mi apparve come una chiarissima risposta a chi avrebbe voluto cambiare le cose in questo Paese.

Tornando alla musica, a Milano intanto mi chiedevano altri due album in Ricordi per contratto; vado su con un po’ di materiale registrato e scoppia un casino che non ho mai capito. Il loro legale mi dice che invece di anticiparmi le royalties che mi spettano mi dice: Santandrea, noi la facciamo andare in galera, altro che anticiparle le royalties che lei dice che le spettino…lei ha trattato con la Emi publishing di Londra ed è un nostro artista esclusivo…così io, un po’ mi incazzo e sbotto, mando tutti a quel paese metto di mezzo un avvocato e sparisco dal giro. Ci rimetto un bel po’ di soldi che avevo anticipato personalmente per produrre l’album nuovo e passo a un editore indipendente che mi faceva la corte da un pezzo. Nel 1995, dopo un bel po’ di sacrifici, posso pubblicare il nuovo album ‘Anni’ che è una vera bomba per quel momento storico; ma l’esclusiva con Ricordi mi impedisce di pubblicare integralmente il lavoro. Posso farlo solo all’estero, quindi stampo in Austria e distribuisco al Midem in Francia a Cannes. Penalizzato e censurato mi ritrovo con le pezze al culo in mezzo alla strada, svenato, sul lastrico e senza alcuna fiducia in nulla di ciò che sia sistema in Italia. Credo che Anni sia il lavoro più romantico che io abbia realizzato.

A quel punto scompare sostanzialmente dalle scene discografiche mainstream e comincia un nuovo viaggio, girando il mondo e suonando nuovamente anche in strada. Cosa si prova a stare fuori dal cosiddetto show business e ad essere totalmente indipendente? Non le è mai venuta la voglia di fare un nuovo disco di canzoni?

Mi piace pensare che a quel punto sono entrato nel mondo reale, ovvero in un altro mondo. Già nel 1994, quando si insedia il primo governo Berlusconi in Italia, me ne ero andato a Parigi poi a Londra potendo assistere al fenomeno visto da fuori. Dall’estero quello che stava accadendo in Italia era chiaro, se da qui sembrava comico da fuori era già paurosamente tragico.

Nei primi tempi fuori dallo show business entri veramente in un mondo parallelo. Inizi a fare i conti con la lentezza del mondo stanziale, con la ‘normalità’ di coloro che si alzano e vanno al lavoro ogni mattina, mentre tu, che hai scelto un’altra via, devi inventarti ogni giorno una giornata nuova e non c’è più un personal manager o un promoter al tuo fianco che ti dice quello che devi fare, che puoi fare. Insomma devi iniziare a costruire una tua organizzazione, una tua impresa, fare da solo la tua agenda e di conseguenza scopri che lo show business non è affatto un bel mondo dorato.

Oggi mi rendo conto che se non avessi fatto quella scelta, così estrema, la mia vita non avrebbe acquisito quel senso del sacro che ha ora. La sensibilità molto spesso può essere un talento, ma certo va maturata e sorretta da una forte fede. In quegli anni incontrai la musica di Caffarelli, entrai nel mondo dell’opera italiana di tradizione, lo studio approfondito non più da studente ma da studioso mi riportò dentro un Conservatorio ad approfondire e perfezionare un programma di studi che mi ero già prefissato al mio ingresso all’Accademia di Belle Arti. Esami e corsi di studi sull’armonia, la lettura delle partiture, la storia della musica, il canto lirico vero e proprio, la respirazione diaframmatica e l’impostazione della voce, il canto corale e il pianoforte complementare, l’arte scenica. Un mondo e un piano di studi assai complesso ma certamente completo.

Scrissi un balletto e un’operina in forma classica che intitolai ‘Il Figaro’ per orchestra da camera: due violini, viola, cello, basso, flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno francese; Interpretata da cinque attori-cantanti. La portai al debutto teatrale nel marzo del 2000 al teatro della concordia di Montecastello di Vibio in provincia di Perugia, un piccolissimo teatro all’italiana, un gioiello di architettura. Furono gli anni in cui frequentai Tonino Guerra, lo andavo a trovare a Pennabilli, a casa sua, e parlavamo dell’Angelo coi baffi. Gli anni in cui avvicinai la società antroposofica e teosofica, gli anni dei concerti di musica spirituale con Padre Albino Varotti, gli anni in cui restaurai e aprii al pubblico un teatrino di provincia: la sala Fellini, ne curai la direzione artistica fino al 2005. Gli anni in cui ebbi la fortuna di collaborare col grande Leo de Berardinis, nel suo Cento Attori al Festival del Teatro di Santarcangelo.

Poi il Giappone, l’invito ad andare a Tokyo. Il primo viaggio fu nel 1999, poi nel 2002 poi ancora nel 2006. Inizi a sentire che il mondo è grande, e tu ne fai parte, sei nel mondo, ti puoi spostare con viaggi da un continente all’altro e non ti fa certo paura fermarti a un angolo di strada a suonare il violino per tre o quattro ore. Così comincio a farlo. Sono di nuovo come a Parigi nel 1978, un uomo in mezzo al popolo degli uomini, libero di andare o di restare. Sento che questa è la mia vera vita, mi sento bene così, mi sento una star… lo so, fa ridere, però per me suonare alla Gare de Saint Lazare a Parigi, a Ebisu a Tokyo, all’angolo di Piccadilly Circus o al piazzale degli Uffizi di Firenze, a piazza di Pietra a Roma, a San Marco a Venezia è importante. Mi fa,sentire un uomo libero in mezzo al popolo degli uomini liberi, insomma un cittadino del mondo.

Sinceramente non ho più pensato di pubblicare un nuovo disco di canzoni, forse lo farò prima o poi, qualcuno se ne preoccuperà. Ne ho scritte tante e qualche amico ogni tanto mi chiede di fargliele sentire, così, prendo la chitarra mi metto per strada e intono.

Facciamo ora un passo indietro al 1978, quando incide il suo primo singolo ad appena 17 anni, periodo in cui gira la Romagna con la band Peremelekaki e un repertorio interamente scritto da lei. Che ricordi ha di quel periodo, che musica ascoltava e come si riallaccia a quanto ha fatto successivamente, fino ai giorni nostri?

Nel 1978 incido il primo singolo perché me lo chiede Orlanda Cevenini a Bologna. Mi dice: “Te sei bravo, ti devi far conoscere se no come faccio a mandarti nei locali a suonare?”. Orlanda è un impresario di liscio però le piace il mio rock e così ogni tanto mi da qualche dritta e qualche suggerimento, qualche data dove mi posso far vedere e ascoltare in pubblico e qualche serata da pochi quattrini. Ma per me è il massimo, ho un impresario di Bologna che si fida di me. In quel periodo frequentavo l’Istituto d’Arte e molti dei miei amici mi incitavano a tenere concerti nei locali della Romagna. All’Istituto d’Arte venivano ragazzi e ragazze da tutto il mondo, era un periodo molto vivo dal punto di vista della creatività. Ascoltavamo principalmente i Pink Floyd, ma anche tutta la discografia che passava i confini. Dai grandi Athenians col sirtaki della danza di Zorba ai Grand Funk, dai Deep Purple agli Osibisa, da In a gadda da vida a Luglio agosto settembre nero. Io ero particolarmente interessato alla ricerca sulla voce fatta da Demetrio Stratos con le sue diplofonie e triplofonie con ‘Cantare la voce’ e ‘Metrodora’; Sentivo che era possibile ‘passare’, sapevo che prima di ogni cosa l’importante era la conoscenza tecnica del mezzo ‘musicale’ come chiave di apertura della comunicazione tra le classi sociali.

Ero uno studente di una famiglia modesta, i miei genitori erano artigiani e non mi potevo permettere il lusso di non lavorare. Considerai la musica il mio mestiere fin da allora, da quando con gli incassi dei primi concerti riuscii ad acquistare una Vespa 125etr, con cui mi potevo spostare e con cui feci il primo tour italiano. Gli altri musicisti della band dicevano che ero troppo scatenato ma quando passammo col 238 Fiat, il furgone a metano con cui andavamo a suonare a un concerto rock a Palestrina vicino Roma,  vicino allo stabilimento dell’RCA sulla Tiburtina, visibile dal grande raccordo anulare, dissi alla band: “Vedete là? Voi avete paura e mi prendete in giro dicendo che sono uno zingaro perché mi sposto da solo per l’Italia con le mia Vespa ma io andrò là dentro, mi apriranno i cancelli e mi chiederanno di stampare i miei dischi perché io il rock and roll lo faccio sul serio. Io non sto giocando e non sono un figlio di papà come tutti voi”. E così è stato. A distanza di pochi anni entrai proprio lì e mi chiesero di stampare il mio primo Qdisk. Ero molto determinato, per me era una questione di vita o di morte, era il mio unico e possibile riscatto sociale. Erano gli anni dell’amore-odio per gli Stones, finita l’illusione dei Beatles, fu sufficiente sentire un riff di Keith Richards per cancellare tutta la melassa assorbita da Lennon-McCartney. Erano gli anni della ribellione vera, di Rebel rebel di Bowie, gli anni in cui lessi ‘Un uomo’ di Oriana Fallaci, poi vennero i ‘Porci con le ali’, il punk inglese, lo ska, i Ramones, i Sex Pistols con il loro film ‘La grande truffa del rock and roll’ e tutto cambiò. Vollero far crollare il rock ma il rock si risollevò più forte e più crudo di prima, ma iniziammo a guardare ai tedeschi: ai Kraftwerk, al post punk, a Nina Hagen, a Klaus Nomi. Da lì nacque il mio modo di pensare la musica, ascoltavo Mozart per capire la struttura dei suoi concerti ed il primissimo Battiato di M.lle les gladiateur. Studiavo il Lautenmusik di Bach, le suite, i preludi, le gigue e le alemanne e mi immergevo nell’ascolto della discografia di Stockhausen, insomma un ampio spettro di colori una grande tavolozza da cui attingevo con il fine di dipingere il mio affresco musicale e poetico, quella che pensavo come la mia opera, una, solo una, con l’ouverture, la sinfonia e tutta la conseguente forma classica. Rimasi molto colpito dal “Fantasma dell’opera” e da ‘Tommy’. Insomma, ero lontano mille miglia dalla forma canzone, nel vero senso della parola, all’epoca viaggiavo verso Parigi e Londra e non verso il mediterraneo.

Forse, anzi sicuramente, da allora sono ancora in corsa, alla ricerca di poter realizzare quello che ho sempre pensato. Un’opera prima completa nel suo linguaggio, un film in 3D, un balletto, un’opera teatrale? Forse solo un libro e una partitura per un’orchestra sinfonica, non so, ormai non importa più, l’importante è che abbia le caratteristiche della comunicazione ‘vera’, quella apparente semplicità di linguaggio che accomuna il flauto magico di Mozart a I can get no Satisfaction, a – perché no – Satyricon di Fellini.

A questo proposito lei suona il violino, compone, è direttore artistico, si occupa di arte in generale. Può raccontare qualcosa di più della sua formazione?

Sì, è vero, suono il violino, compongo, dirigo e amo occuparmi anche di arte figurativa. La mia formazione? La ricerca? Non so, ho sempre seguito l’indicazione di Augusto Betti, un grande designer, che ho avuto la fortuna di avere come Maestro di disegno professionale all’Istituto. Augusto mi diceva sempre: “Se c’è qualcosa che non ti fa stare bene cerca di cambiarlo, un colore, una forma, un modello, una superficie, cambiala così troverai la tua dimensione del piacere, la piacevolezza di vivere nel bello, devi essere tu a costruire la bellezza del mondo attorno a te, la bellezza e la funzionalità. Quando ti manca qualcosa devi essere tu il primo a realizzarlo, una tazza da tè? Una sedia comoda? Una poltrona? Una lampada? Cosa ti serve? Pensaci, pensaci a fondo e realizza ciò che ti serve”. A me serviva una nuova musica e iniziai a cercare di realizzarla perché avevo chiaramente la ‘visione sonora’ di quale fosse l’oggetto musicale da materializzare durante la mia permanenza in questo mondo e in questa vita.

In generale quanto crede sia più semplice avere successo facendo ‘rumore’ rispetto a cercare di ‘farsi ascoltare’?  

Il successo è la diretta conseguenza di un lavoro ben fatto, ma è anche il participio passato del verbo succedere, accadere dopo, per cui un successo rumoroso o silenzioso non importa di per sé, nella forma, appartiene comunque al passato a qualcosa che non è più. Per me è interessante il presente, l’attimo che genera il futuro. L’illuminazione temporanea che muove ad una diversa condizione dello spirito. Lo scoccare di una scintilla è la nascita di una stella, diversa nelle dimensioni forse ma indubbiamente fonte di luce e di energia. Così vedo il successo, una stella che è viva e continua a illuminare di luce propria, una materia che si esaurisce per propagare energia. L’idea del successo per me si ricollega all’idea del sacrificio, del rendere sacra la vita che è il nostro bene più prezioso.

Parliamo adesso dei suoi testi, che mi sono sempre sembrati molto personali e mentalmente elaborati. Quanto lavora su se stesso e le sue esperienze per tirarli fuori, quanto sono invece frutto di osservazione della realtà che la circonda?

I miei testi, le parole che uso sono quasi sempre un escamotage, forse sono sono metafore, espedienti per indirizzare la mia attenzione e quella dell’ascoltatore. Ovviamente partono dall’osservazione del mondo circostante e vengono filtrati dalla mia esperienza individuale. Credo che questo sia comune a quasi tutti coloro che scrivono, a meno che non usino la scrittura automatica, ma lì entriamo in un altra zona di pensiero. Voglio fare un esempio pratico. Circa tre anni fa una mattina di gennaio molto limpida cercavo le parole per tradurre dal tedesco il corale 147 di Bach, era un concetto difficilissimo da esprimere poi fui illuminato da un lampo di luce mentre parcheggiavo la macchina ed ero così concentrato che ne uscì il versetto utile al mio scopo, “dentro il sole, nella luce”. Ecco così escono le mie parole. Naturalmente.

Un’ultima domanda la voglio riservare al progetto della Camerata Veneziana. A vederla suonare con gli altri musicisti si percepisce un grande piacere di esprimersi, di divertimento, se mi passa il termine. Quanto costa, in tal senso, scegliere la libertà?

Sì effettivamente la sensazione di divertimento c’è, ahinoi, perché proprio questo divertimento (dal verbo divertere, cioè spostare l’attenzione) può a volte creare confusione. La Camerata Veneziana nasce spontaneamente da un gruppo di musicisti da camera appunto, Gonzalez al fagotto, Ghetti al flauto, Dragoni al clarinetto, Bonucci al clavicembalo, ogni tanto appaiono altri musicisti, la Camerata è un po’ il mio gruppo di lavoro, oddio più che di lavoro potrebbe, proprio per il divertimento palese delle esecuzioni, apparire un gruppo di svago, una sorta dopolavoro ferroviario, di circolo pensionati o di bocciofila, ma posso garantire che il livello dei Signori professori è ‘superiore’. Mi si potrebbe contestare il fatto, superiore a cosa? Superiore a chi? Beh, risponderei che questo è un argomento vacuo quindi inutile farsi trascinare in argomenti vacui. La vacuità fagocita ed è pericolosissima. Molto molto meglio avere un simposio quale la Camerata che nell’ironia, nel sorriso, anche – perché no? – nell’ilarità a volte riesce ad avere una coesione strutturale che va al di là della nostra coscienza. Di fatto non sappiamo perché, pur non sopportandoci ormai, continuiamo ad esistere. Forse perché quando il filo che ci unisce e così sottile da essere quasi invisibile anche a noi stessi non abbiamo più paura di prenderci in giro o di cercare sempre e comunque la condizione estrema. Insomma, con la Camerata ho la sensazione di ‘andare fino in fondo’ e, spesso, quando si è costretti ad affrontare viaggi così profondi e solitari è bene farlo con persone che utilizzano bene il sorriso interiore. Per me o per noi, scegliere la libertà non è più una scelta. Di fatto è l’unica condizione possibile. Non potremmo esistere diversamente. Scegliere la libertà significa scegliere, ma noi non abbiamo scelto, abbiamo semplicemente percorso l’unica via percorribile che può apparire una scelta di libertà. Non abbiamo fatto altro che scegliere di essere noi stessi perché questa è stata la sola e unica via possibile.

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