La cucina sacra di Pietro Leemann

16 Ottobre 2013 di Stefano Olivari

Pietro Leemann ha vinto in trasferta, iniziando la sua partita in svantaggio di tre goal. Non sapremmo trovare altra metafora per definire uno chef che negli anni Ottanta ha scelto la strada della cucina vegetariana e che in tempi relativamente brevi è riuscito ad ottenere la stella Michelin. Il suo Joia è tuttora l’unico ristorante vegetariano d’Europa a potersi fregiare di questa medaglia: indice della classe di Leemann ma anche del poco coraggio dei suoi colleghi e, diciamolo, dell’ottusità dei media del settore. Viviamo la nostra prima volta al Joia insieme all’amico Fabrizio Provera, giornalista enogastronomico e sommelier, ben decisi a non farci condizionare dal nome di Leemann. Non facciamo parte della parrocchietta dei critici, pur sforzandoci di capire cosa mangiamo, però facciamo parte di quella ben più vasta dei vegetariani: in senso stretto il 7% dell’intera popolazione italiana, senza contare i milioni di persone che mangiano poca carne e poco pesce solo per questioni di gusto. Siamo quindi più interessati a capire la filosofia di un grande chef che a fare i tignosi sulla cottura di una zucchina: fermo restando che preparare bene le verdure è molto più difficile che mettere un filetto in padella o un’orata sulla griglia.

Proviamo tutto, dall’antipasto al dolce, incuriositi dai nomi dei piatti e ricostruendo solo a posteriori gli ingredienti. Si parte con ‘Di non solo pane’: panzanella con verdure croccanti e cuore di cannellini profumati al wasabi, su letto di zafferano e lampone a rinfrescare il tutto. E da subito si percepisce, netta, la nota dominante della cucina di Leemann: la leggerezza, che non va a scapito della sapidità e della pienezza gustativa. Il primo è ‘L’ombelico del mondo’: risotto ai mirtilli, mosaico di peperoni, piattoni e melanzane. Piatto che rasenta quella perfezione da sempre additata come nefasta dai grandi chef, ad esempio Fulvio Pierangelini: perché la perfezione di un piatto equivale alla sua perdita di dinamismo. E allora, diciamo che questo risotto è (solo) quasi perfetto…  Il nome del secondo è ‘Sotto una coltre colorata’: cubi di ricotta arrostiti, salvia croccante, pesto di erbe, fave, cuore di melanzane affumicate, piattoni e altro ancora. Piatto ed ingredienti in continuo divenire, come la cucina del Joia. Il dolce è il ‘Gong’: spuma vaporosa di mandorle con frutti di bosco, crumble di mais, contrasto delicato di lampone, vaniglia e menta, composta di albicocche. Tutto presentato in maniera elegante ma non affettata, per niente intimidente. Un solo momento fantozziano, quando il dolce è stato preceduto dal suono di un mini-gong portato sul tavolo dal cameriere.

Cucina leggera, cosa che per un vegetariano non è scontata (anzi, di solito gratinature e fritti spuntano fuori ovunque), ma non impalpabile: l’ironia sul ristorante stellato la riserveremmo a ristoranti stellati con prezzi molto più alti. Il commento forse più calzante è del nostro commensale, carnivoro convinto: i piatti del Joia danno una piena esperienza gustativa, non lasciano alcun senso di ‘privazione’ gastronomica. La cucina del Joia, forse, è arrivata al punto più alto di maturazione: per questa ragione si adatta a una clientela molto più ampia di quella vegetariana. Senza dimenticare che cantina e sommelier viaggiano in parallelo, agli stessi ed alti ritmi: nel calice c’è sempre il vino giusto, cosa tutt’altro che facile quando lo chef viaggia per praterie sterminate. Addirittura, verso quella che lui stesso – lo chef – indica come la sua prossima meta: la ‘sacralizzazione’ della cucina. Quindi al Joia non si verrà per fare soltanto una grande esperienza gustativa. Si verrà (anche) per ragioni spirituali. Scusate se è poco… Risposta a quella che spesso è la prima delle domande: al Joia per primo, secondo e dolce scelti alla carta si spendono 65 euro (vino escluso). Qui c’è molta cura, ma soprattutto qui c’è Pietro Leemann. Che compare alla fine del pranzo, sedendosi a tavola con noi e raccontandoci, lui svizzero, il suo miracolo italiano.

Signor Leemann, lei è rimasto l’unico grande chef del mondo a non andare in televisione a giudicare ed eliminare dilettanti?



Veramente ho una collaborazione con la tivù svizzera, per parlare di cucina con i tempi e i modi giusti. Non ho niente contro la televisione, ma il livello di certe trasmissioni che hanno la cucina come pretesto è davvero troppo basso. Non per la qualità dei piatti, ma proprio come approccio culturale.



Ci pare di capire che lei non sia un grande amante dello chef-personaggio…


Infatti. Non bisogna generalizzare, ma ci sono chef che in televisione vanno a fare soprattutto promozione a se stessi, esasperando certi lati del loro carattere. L’aspetto strano della vicenda è che non ne avrebbero bisogno: spesso sono già famosi e i loro locali sono regolarmente pieni. Non c’è nemmeno, per esprimersi concretamente, la spinta finanziaria: non è che le televisioni offrano questi grandi ingaggi… Per dirlo in una parola: esibizionismo.



Qual è il suo approccio alla cucina, al di là del l’etichetta di vegetariano?


Un approccio etico, morale, rispettando i principi in cui credo è in cui spero creda gran parte della clientela. Senza usare parole grosse, sono convinto che ciò che è buono piaccia a tutti. Oggi le persone, almeno nella parte di mondo in cui viviamo, possono scegliere.


Durante gli anni della sua formazione, avvenuta anche in Cina e Giappone, lei è stato allievo di Gualtiero Marchesi. Qual è stato il suo insegnamento principale?


Marchesi insegna a pensare ai suoi allievi e ai suoi sottoposti, non si limita a dare ordini indiscutibili. L’atteggiamento dei grandi chef francesi è invece ben diverso. Io, anche con il senno di poi, preferisco quello di Marchesi. Non a caso con lui si sono formati chef che poi hanno preso strade molto diverse per arrivare al successo.



Nel 1989 la grande svolta della sua carriera, con l’apertura di Joia a Milano. Cucina vegetariana fin dall’inizio?


La carne non c’è mai stata, per qualche anno però ho proposto il pesce e ripensandoci mi dispiace di averlo fatto. Poi ho deciso di rispettare i miei ideali fino in fondo e i riconoscimenti sono arrivati: non solo dalla stella Michelin ma anche dai clienti che mi hanno detto “Perche non l’hai fatto prima?”



La cultura vegetariana viene tuttora guardata con sospetto, derisione, quando va bene condiscendenza da parte della maggioranza carnivora. Lei come è diventato vegetariano?


Sono cresciuto in una famiglia per così dire normale, poi crescendo la coscienza delle sofferenze degli animali è diventata qualcosa di difficile da tacitare. Non posso provare piacere da un cibo che è costato dolore atroce, oltre l’immaginazione. Poi i viaggi in Oriente sono stati decisivi per farmi conoscere filosofie di rispetto dell’ambiente che andassero al di là delle mie percezioni di occidentale.



Lei è diventato induista. Questa religione ha aggiunto qualcosa a quanto già era nelle sue convinzioni laiche?


Restringendo il discorso alla scelta vegetariana, mi ha insegnato il rispetto per tutti gli esseri viventi. Fondare il proprio piacere sulla sofferenza altrui è tremendo.

Parla di scelta vegetariana, questo porta il discorso su come comportarsi con i bambini. Domanda più diretta: sua figlia di tredici anni è vegetariana?


Lo è stata fino ai sette anni, per scelta evidentemente dei genitori. Dopo ha deciso da sola e mi fa molto piacere che sia quasi totalmente vegetariana anche oggi. Se il senso della domanda è di tipo medico, la risposta è semplice: i bambini cresciuti con un’alimentazione vegetariana, ovviamente rispettando alcuni concetti di base, sono bambini più sani degli altri. I bambini sono ontologicamente vegetariani, infatti quasi tutti i genitori impazziscono per convincerli a mangiare carne. In pratica si insegna a mangiare carne a esseri che possono mangiare carne, ma non è che debbano. Potere non è la stessa cosa che dovere.



La cucina vegetariana è qualcosa per pochi eletti?


Assolutamente no, è anzi un ritorno ad abitudini di pochi decenni fa quando la carne era un lusso. Il paradosso è proprio questo: in teoria la carne, per i costi che comporta, dovrebbe avere un prezzo altissimo ed invece in proporzione costa meno della buona verdura. È’ chiaro che gli animali allevati con steroidi e alimentazione forzata svilupperanno problemi e malattie che poi vedremo in chi li mangia.



Ma potrà mai diventare di massa, proprio sul piano culturale?

La cultura non cambia in pochi giorni, ma certi comportamenti possono mutare fin da subito. Per Milano Ristorazione mi sono occupato dei pasti di 80mila bambini milanesi, con il menù proposto che ha un impatto ambientale di circa 10 ettari di terreno. Se ci fosse carne, l’impatto sarebbe di dieci volte tanto. E sto parlando di un giorno. Basta qualche moltiplicazione per arrivare a numeri impressionanti, che cambierebbero in meglio il mondo.

Insistiamo su questo punto: perché la cucina vegetariana viene vista come scelta di elìte?


Forse perché chi si avvicina a questa scelta, per motivi salutistici o etici, ha una cultura mediamente più elevata di chi la ignora anche come semplice opzione. Ma sono ottimista: per informare basta poco. Il passo decisivo, per l’affermarsi di una qualsiasi cucina, è la sua democratizzazione. Cioè uscire dalla dimensione del ristorante stellato e scendere sulla terra. Noi del Joia, con il bistrot qui a fianco, ci stiamo provando. La cucina non è comunque solo ristorante, ma soprattutto casa: lì, specie in Italia dove la varietà di alimenti non manca, è solo questione di scelte personali.



Perché pochi grandi chef hanno effettuato la scelta vegetariana?


Cucinare la carne è più facile che cucinare bene le verdure. E di sicuro permette più combinazioni per creare un piatto. Alcuni colleghi forse provano anche una sorta di godimento, vedendo la carne in padella.

Al di là della televisione, i grandi chef hanno personalità fortissime. Con quali va d’accordo e con quali no?

I due elenchi sarebbero lunghissimi. Nel primo metterei senz’altro il maestro Gualtiero Marchesi ed Enrico Crippa, parliamo lo stesso linguaggio. E nonostante le grandi differenze ho molta stima di Davide Scabin.



Dopo un quarto di secolo di successo con il Joia, come vede il suo futuro?


Il mio futuro, ma anche quello della cucina in generale, deve andare nella direzione di una sacralizzazione di quello che portiamo in tavola. Rispetto per l’ambiente, per gli altri esseri senzienti e in definitiva per sé stessi. Rispetto, evitando sprechi e dolore. Concetti antichi che proverò, concretamente, a tradurre in piatti nuovi che dovranno presentati e accolti in modo nuovo.

 (pubblicato su Il Giornale – Style di venerdì 11 ottobre 2013)

Share this article