Anche per il calcio Bergoglio santo subito

14 Agosto 2013 di Igor Vazzaz

Dopo mesi di attesa, è arrivato il giorno dell’amichevole papale, quell’Italia-Argentina da disputare nella Città Eterna, sotto l’occhio vigile e bonario (benché fisicamente assente dalla tribuna vip dell’Olimpico: forse perché sa che razza di imbucati si troverebbe intorno…) di Franciscus, al secolo Jorge Mario Bergoglio, argentino di Baires e tifoso sfegatato del San Lorenzo. Sfumata la possibilità di vedere il sommo pontefice direttamente allo stadio, le due selezioni nazionali sono state ricevute in Vaticano, al cospetto del vescovo di Roma. Quindici minuti di udienza, ricevendo oltre duecento persone, cui ha rivolto parole non proprio rivoluzionarie (ma i suoi ascari dicono di sì), improntate a quel buon senso cristiano che, pur condivisibile sotto il profilo degli ottimi propositi, spesso costituisce forma rituale astratta e consolatoria, assai distante da una qualsivoglia prospettiva d’intervento pragmatico sulla realtà. Come leggere, altrimenti, frasi del tipo “Ai dirigenti dico: non fate perdere il carattere sportivo al calcio business. Questo atteggiamento garantisce le famiglie allo stadio e scoraggia la violenza“? Quando mai dei cambiamenti strutturali nella società umana sono avvenuti sulla base delle buone intenzioni o dei buoni sentimenti?

Al teatro (ché di teatro sempre si tratta, in un mondo a doppio filo legato alla sua rappresentazione) non si sono certo sottratti calciatori, allenatori, dirigenti, ché italiani e argentinos “una faccia, una razza” lo sono davvero, tutti nella contrizione esibita al ricevimento del severo monito dell’hombre blanco. Che non si lascia scappare l’occasione per rimembrare i tempi in cui tifava, dal vivo, per il suo San Lorenzo, quello che compì el milagro nel 1946, forte del Terceto de Oro Farro-Pontoni-Martino, in grado di spezzare la dittatura a due del calcio porteño e argentino. Il teatro è tale che la parte in commedia non deve stonare e giù, quindi, con le petizioni di bontà perorate a destra e a manca, forti delle recenti e pie dimostrazioni a suon di codici etici a intermittenza e bizzarre dichiarazioni di lealtà (Buffon, lo stesso che afferma tranquillamente di poter mentire a un arbitro pur di assicurarsi un risultato: eh, ma la sincerità è un valore, non bisogna essere ipocriti…). Il gioco, del resto, è un altro, svolto per intero sul piano della propaganda e della rappresentazione.  La realtà dei fatti è solo un’ottimistica, trascurabile quisquilia, che non deve assolutamente turbare la narrazione lisergica cui sottoporre il parco buoi di acquirenti e forza lavoro, la massa che deve prima produrre, poi consumare. È l’allucinazione, suggerita e potenziata tecnologicamente dalla fantasmaticità dell’immagine digitalizzata nella trasmissione video, il supremo piano (ir)reale su cui fondare il tutto. Un presidente americano, non a caso attore, lo ha dimostrato e più volte dichiarato apertamente: “Facts are stupid things“. Ciò che conta veramente è quello che vi si costruisce sopra, intorno, la fiction. Ecco, quindi, un papa che si porta il bagaglio a mano, sale in autobus, predica contro gli sprechi, fingendosi (ma senza esserlo: è un papa!) uno del popolo, riuscendo a convincere, con la pura forza d’un buonsenso ostentato, di far parte di quello stesso popolo che non mancherà di recitare il mantra “San-to su-bi-to!” non appena egli avrà modo di passar a miglior (?) vita. Viviamo d’esibizioni, nell’ostinata ostensione di atteggiamenti, sentimenti, emozioni, incapaci d’intuire il diaframma che separa la performance dal sangue reale, giocando, anzi, sulla con-fusione dei due piani, come se nulla fosse, come se fosse naturale. Anzi: giusto ed emozionante. In fondo, Bergoglio, non siamo noi a notarlo per primi, è una versione modificata e corretta di Wojtyła (un altro ex attore, un caso?), un Wojtyła 2.0, e il calcio, non siamo noi a notarlo per primi (rassegnamoci: non notiamo mai niente per primi), è uno tra i più potenti vettori simbolici del nostro tempo. Tutto questo, senza tirare in ballo i precedenti ambigui del gesuita più influente nell’Argentina degli anni Settanta, o il confronto con il papa emerito (adorato in carica, salvo accogliere finalmente il populismo del suo successore: tranquilli, un San-to su-bi-to non mancherà nemmeno per lui), cose che sfuggono effettivamente alle nostre possibilità di analisi.

Resta, piuttosto, il sospetto che questo papa sia davvero quello che i tempi chiedono alla Chiesa: rappresentazione, simbolo e icona. Sbagliava, forse, il Pasolini corsaro (tifoso del Bologna e ala sinistra di tutto rispetto sui campetti di Roma e dintorni) quando sottolineava la distanza insanabile tra la religione cattolica e il neocapitalismo della rivoluzione antropologica: sbagliava, forse, perché non ne poteva intuire la capacità di rinnovamento nell’apparente tradizione, nella sciente e amministrata simulazione, conscia dei grandi insegnamenti che la storia del Novecento ha impartito in fatto di comunicazione di massa.E non è, quindi, un caso che l’autentico erede del ponteficie vicino a Solidarność provenga da quel bizzarro laboratorio politico che è (stata, e tuttora è) l’Argentina. In fondo, la commistione populista di Bergoglio ci pare davvero in debito con la tradizione del peronismo, in particolare quello della  prima fase, sospeso tra ottimismo e malafede, che verrà spazzato via col sangue nei primi anni Settanta. Ma cosa importa, da oggi i giocatori saranno tutti più buoni, e batteremo le mani consolati e partecipi. Che… Que viva italia! Qua viva Argentina, carajo!

Igor Vazzaz e Samuel Clementi (per gentile concessione degli autori, fonte: ReLoco Sport)

 

Share this article