La scienza nello sport (sì, ma quale?)

4 Giugno 2013 di Carlo Vittori

Non è superfluo affermare, soprattutto ai giorni nostri, che l’unica scienza (con la esse minuscola) utile allo sport sia quella applicata alla ricerca metodologica o alla scelta di nuovi mezzi per il perfezionamento del training. Invece sembra che tutti i premi Nobel per la Medicina (o per la Chimica…) abbiano scritto libri di atletica di valore universale, mentre gli allenatori che lavorano sulle specificità dei singoli non hanno voce. Considerata la poliedricità dell’atletica leggera, con le sue differenti specialità, ma soprattutto la sua precisa quantificabilità sia metrica che cronometrica, mi domando spesso che valore abbiano per l’atleta Y quelle migliaia di pagine di esercizi dell’atleta X. In altre parole, la strada per arrivare da 10″30 a 10″15 sui 100 metri è diversa a seconda di chi si allena, centinaia di ragazzi e decine di medaglie internazionali mi hanno insegnato almeno questo.

Invece è da quando sono giovane che ascolto teorie ‘scientifiche’ slegate dalla realtà cronometrica nell’ambito della legalità. Penso di rispondere ad alcune critiche apparse anche su Indiscreto facendo una semplice domanda: ma il tuo atleta di quanto è migliorato, in maniera pulita, da quando lavora insieme a te? Non si parla di medaglie olimpiche, ma di miglioramenti. L’impegnativo termine ‘scienza’ deriva dal latino scire (cioé sapere), ma per notizia certa di condizioni ordinate, certe e ripetibili. La sua prassi si concretizza in una sequenza di momenti che ne determinano lo sviluppo: 1) Conoscenza approfondita delle gestualità tecniche; 2) Enunciazione di una ipotesi di lavoro che contenga i principi, gli indirizzi, la scelta dei mezzi e dei nuovi metodi per migliorare la prestazione; 3) Verifica sperimentale, che deve concludersi con il controllo degli indicatori; 4) Formulazione di una tesi che affermi la giustezza o meno del procedimento. Nell’atletica tutto è misurabile, non mi stancherò mai di ricordarlo.

Mi ripeto. Il compito principale dell’allenatore che lavori con un atleta dotato è arricchire il programma del training di stimoli interessanti ed eccitanti. E’ solo l’allenatore sul campo non convinto di avere ottenuto il massimo quello che si può proiettare verso il nuovo. Perchè queste prerogative consentono lo svuiluppo di stimoli per perpetuare quei fenomeni di supercompensazione che la macchina umana produce per premunirsi ed annullare l’azione stressante. Soltanto questi comportamenti permettono la reiterazione dei miglioramenti assoluti e relativi. Spero di non offendere nessuno, ma va detto che a volte chi fa ricerca scientifica applicata allo sport è di media qualificazione, quindi è più facile agli entusiasmi. L’allenatore che cade in questo equivoco parascientifico smette di essere un allenatore e diventa una specie di interprete fanatico di una scienza discutibile. Innamorato della sua teoria e un po’ meno del suo atleta.

Carlo Vittori, 4 giugno 2013

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