I due registri di Aldo Giordani

20 Marzo 2013 di Fabrizio Provera

Aldo Giordani vive nel battito di ogni palleggio nella palestra milanese a lui dedicata, in ogni aerea e soffice parabola a canestro’. Ci piace riprendere un passo di Pierluigi Marzorati come incipit della recensione d’un libro che abbiamo letto e riletto svariate volte, in questi due mesi. L’omaggio ad Aldo Giordani,  ‘Quando il basket era il Jordan’, curato amorevolmente (e appassionatamente) dai figli dell’epico fondatore di Superbasket – Marco, Valeria e la già campionessa di sci Claudia – assieme a due giordaniani di rito antico e accettato, Flavio Tranquillo e Luca Chiabotti. Ci stacchiamo così per una volta dall’attualità cestistica, confortati dai ritrovati successi di Cantucky e con la mente pronta a celebrare – per Indiscreto – i 30 anni dalla finale di coppa dei Campioni tra Ford e Billy, con Cantù che ascende per la seconda volta in due anni al più alto gradino d’Europa, da città più piccola nella storia ad aver mai conquistato e alzato il trofeo.

‘Quando il basket era il Jordan’ è un libro double face, non ce ne vogliano gli autori: i passaggi personali e i ricordi familiari, specie quelli di Marco, sono di carezzevole intimità. Alcuni dei contributi vergati dai maggiorenti del basket italiano – Sandro Gamba, Gianni Petrucci, Toni Cappellari, Gianni Corsolini, Andrea Bassani ed altri – piuttosto retorici e non indimenticabili.  Quello di Pierluigi Marzorati, tra cui l’incipit del pezzo, trasmette lo spessore extra basket del personaggio (elevato), ma la ragione che giustifica i 15 euro del prezzo di copertina – ampiamente, diremmo – sono senza dubbio alcuno i tributi di Chiabotti e Tranquillo. Sinceri, appassionati, frutto di una devozione praticata a lungo, né pelosa né postuma. Sono pagine intense, da leggere due, cinque, dieci volte, dalle quali emerge non tanto il ruolo passato del Jordan, quanto casomai le ragioni della sua perdurante attualità. Nonostante siano passati oltre 20 anni dalla morte di Giordani, insomma, la sua epopea giornalistica ha da dire molto, moltissimo, anche al basket di oggi e a quello di domani.

Chiabotti parte dall’incontro col Jordan, avvenuto nel 1977, passando da anni e anni di intensa collaborazione con il nascente Superbasket. ‘La cosa più sorprendente è che quello che viene richiesto ai giornalisti dei quotidiani di oggi per essere moderni e combattere la sfida contro Internet Giordani lo faceva 50 anni fa’, osserva Chiabotti.  E via con l’elencazione dei meriti giornalisti acquisiti dal Jordan, tra gli attacchi al potere federale, al protagonismo arbitrale dei ‘finitimi’, ma anche l’incentivo ai nostri migliori talenti perché potessero crescere all’ombra dei ‘crack’, i grandi campioni che tra i Settanta e gli Ottanta pullulavano, sui parquet italiani. “La   scomparsa prematura di Aldo Giordani ha privato il basket italiano non solo di un grande innovatore mediatico, ma anche di una spinta incessante e della sua coscienza critica nel momento del cambiamento più difficile. Quanto alla pallacanestro italiana, avrebbe continuato a suonare la grancassa, l’avrebbe compresa, criticata e cavalcata, ma forse non particolarmente amata”. Gioco, partita, incontro.

Superata la bella gallery fotografica in bianco e nero e a colori, 30 pagine godibilissime, specie per i Superbaskettari della prima ora, si arriva al pezzo migliore, a modo di vedere del sottoscritto: il tributo di Flavio Tranquillo, reso unico dallo speciale rapporto che evidentemente legava l’attuale telecronista di Sky al patron del giornalismo cestistico italico. Tranquillo parte dal ricordo affettuoso e dalla gratitudine provata verso Giordani; rammenta che a Superbasket non si navigava certo nell’oro (perché adesso..), ma ricorda anche che “senza il genio di Giordani e la sua visione non ci sarebbe stata pallacanestro nella Tv italiana. Il suo autentico capolavoro è stato quello di riuscire a usare con identica efficacia due registri completamente diversi. Uno fatto di polemiche sanguinose e tecnicismo spintissimo, un altro a 180 gradi di distanza, quando parlava al grande pubblico, quello da conquistare in Tivù”. E poi una chiosa tanto appassionata quanto bella: “Sul tasto del proselitismo Giordani avrebbe picchiato fino allo sfinimento, con la stessa violenza belluina con cui si accaniva sui tasti della sventurata Olivetti. Contribuendo ad instillare nelle generazioni successive il concetto che quando ci si occupa di pallacanestro si partecipa a una specie di guerra”.

Sottoscriviamo in  pieno, aggiungendo- da devoti lettori del generale cinese – che se il basket era una guerra, Giordani era una sorta di  Sun Tzu.  Non aggiungiamo altro, per non togliere il piacere della lettura. Concludiamo col più classico dei quesiti: ma come si troverebbe, oggi, Aldo Giordani? Il Giordani delle cene conviviali sino a notte fonda in un ristorantino di via Fara a  Milano, con Dido Guerrieri e la variopinta corte dei miracoli cestistica? Il Giordani dai ritmi di lavoro proibitivi per chiunque, si finisce alle 4 del mattino e alle 8 già in ufficio? Noi crediamo decisamente che non si troverebbe un granché bene. Anzi, pensiamo si troverebbe male. Lo abbiamo letto negli occhi di Aldo Oberto, uno dei giordaniani oltranzisti che collaborò per decenni col Jordan, che abbiamo avuto il privilegio di conoscere personalmente negli ultimi sei mesi. Abbiamo parlato tante volte di ‘giordaniana e dintorni’, assieme ad Aldo. Ed ogni volta, senza che lo dicesse, abbiamo capito quel che voleva dirci: troppo forte lo iato, troppo stridente il contrasto tra ieri e oggi. Altro basket. Altri tempi. Soprattutto, altri uomini.

‘Quando il basket era il Jordan’, a cura di Claudia, Valeria e Marco Giordani, Luca Chiabotti e Flavio Tranquillo
Edizioni Libreria dello Sport, 15 euro

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