Non c’è più la musica di una volta

13 Aprile 2012 di Stefano Olivari

Finalmente qualcuno che prende in giro la folle ossessione per il passato di quasi tutta la cultura contemporanea, nelle sue varie declinazioni. E’ il critico musicale Simon Reynolds, nel suo difficile e per molti aspetti profondo Retromania – Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, in Italia edito da Isbn. Un libro difficile perché pieno di riferimenti musicali sconosciuti ai più, sia a livello di nomi (chi sono i Temperance Seven?) che di genere (cos’è l’hypnagogic?), ma profondo proprio perché scava nelle ragioni ultime della nostra rivalutazione o ipervalutazione anche di ciò che ‘ai suoi tempi’ era considerato marginale. Siamo ben oltre la tiritera del Totò snobbato dalla critica (detto fra parentesi, lui era un genio ma i film rimangono orribili anche a sessant’anni di distanza), siamo in piena patologia.

Qui si parla soprattutto di musica, ma lo schema può senza problemi essere riproposto per cinema (Aahhh, i grandi maestri del neorealismo…), letteratura (Aaahhh, quando ci si trovava in via Veneto con Alberto e Pierpaolo…), sport (Aaaahhh, quei lanci di Suarez…), eccetera. Il libro è diviso in tre parti: Oggi, fotografia della cultura attuale, Ieri, sulle concatenazioni e le influenze nella musica del dopoguerra, e Domani, fra tendenze e scenari musicali. Quasi a dare ragione alla tesi dell’autore del libro, la parte più riuscita è la prima, in cui si parte dal ridicolo ma redditizio fenomeno delle reunion per sottolinerare il proliferare di musei e in generale di storicizzazioni della musica pop e maggior ragione rock. In altre parole, del rock presente si parla solo in rapporto ai suoi legami con quello del passato, rimpiangendo un’età dell’oro i cui protagonisti sono in gran parte ancora viventi. Reynolds sottolinea l’assurdità di collocare una musica di ribellione in un museo e il paradosso di rimpiangere la sua carica innovativa. In pratica vecchi appassionati o giovani cultori del vecchio rimpiangono la carica innovativa del passato e in particolare degli anni Sessanta, entrando in un loop da filosofo presocratico.
Già, perchè è dai primi Settanta che il citazionismo e il rimpianto fanno parte della musica, anche se è solo dagli anni Duemila che la musica ha smesso di proporre generi di rottura rispetto al passato. Il panorama adesso è dominato da bravissimi musicisti, colti e bravi nell’assemblaggio, ma che non possono superare il passato per la semplice ragione che loro per primi lo ritengono insuperabile. Un atteggiamento un po’ alla Fabio Fazio, se vogliamo, deferente e bisognoso di approvazione. Vedere un dodicenne che si esalta per i Led Zeppelin sulle prime può farci piacere, per il legame inter-generazionale che si crea, ma subito dopo mette tristezza. La memoria è ovviamente una memoria frammentaria, la memoria di You Tube che permette in pochi secondi di accedere alla storia facendo perdere interesse per il presente e per quel piacere fisico della conquista che era il disco in vinile. Di più, You Tube e in generale la musica su file impongono di fatto un confronto continuo con il passato: nell’era del vinile Fabri Fibra avrebbe avuto come concorrente, mettiamo, Marracash, mentre oggi si deve battere con tutti i rapper del passato.
Proprio qui sta il fascino del libro, in questo criticare il conservatorismo culturale odierno usando elementi conservatori come la nostalgia e l’identità, giocando sull’equivoco quando parla delle proprie ossessioni: su tutte l’importanza del punk, di cui viene proposta una chiave di lettura originale (grido di rabbia non contro il sistema ma invocante un ritorno alle radici del rock anni Cinquanta: noi all’apogeo del punk avevamo dieci anni e ci ricordiamo solo qualche cover cantata da eroinomani, proprio You Tube ce lo ha fatto rivalutare) ma anche ingigantita l’influenza. Proprio come tutti noi facciamo con le nostre ossessioni. Alcuni capitoli sono geniali, in particolare quello sul collezionismo, altri meno, in tutti si sente un pensiero non chiuso nell’orticello musicale. In definitiva si tratta di un libro coraggioso ma anche per certi aspetti furbo (chi fa una trasmissione contro la prostituzione sa di attirare anche un pubblico di voyeur), che fa riflettere sul fatto che oltre un certo limite l’erudizione sia nemica della creatività. La scarsa originalità del pop attuale deriva proprio da questo bisogno di ‘nobilitarsi’ con influenze storicizzate e padri indiscutibili. Venerabili maestri che spesso hanno nel loro curriculum solo due hit decenti (di cui quasi sempre si vergognano) e lo schieramento politico giusto. Non c’è più la metaforica uccisione del padre, base della crescita di tutti, ma un sentirsi orfani di un padre che si è conosciuto solo attraverso racconti di altri. Nostra nonna l’avrebbe detto con altre parole: non c’è più la musica di una volta.
Twitter @StefanoOlivari

Share this article