Texas & Football

17 Giugno 2011 di Roberto Gotta

di Roberto Gotta
Si fa presto a dire Texas. Colpa di media che vivono di luoghi comuni, un po’ per ignoranza e un po’ perché spesso ad essere ignorante è un pubblico che si accontenta di quel che gli viene propinato. E così vale anche per il Texas. Chiedi a un non americano – ma anche ad alcuni statunitensi – e ti senti descrivere un’entità geografica composta da un mosaico di stereotipi derivanti da film, telefilm, racconti e immagini manipolate.

Ci sono i cowboy, ti dicono, e sia. C’è il deserto, ma in realtà è solo il 10% del territorio. C’è quella vallata con le rocce rosse sul cui sfondo gli indiani inseguivano le diligenze, ed è falso: perché le rocce rosse ci sono realmente, ad esempio nel parco statale del Caprock Canyon, ma non sono quelle del film, situate invece nella Monument Valley che si estende tra Arizona e Utah. Ci sono i pozzi di petrolio, ma non ovunque. Ci sono le mandrie, certo. C’è la prateria, e ci sta. C’è Fort Alamo, a San Antonio, ma non c’è straniero che lo veda e non rimanga colpito dalle ridotte dimensioni dell’edificio vero e proprio, situato all’interno di una cinta muraria modesta. Ma nessuno ti menziona mai la pesca nel Golfo del Messico, le colline della Hill Country che occupano parte della zona centrale, le paludi al confine con la Louisiana, le follie delle vacanze universitarie di primavera a South Padre Island, i centri medici e l’astronautica di Houston, l’avanguardia accademica, informatica, musicale e artistica di Austin, i boschi fitti dell’area orientale. Soprattutto, nella confusa memoria iconografica di molti c’è un’inelegante commistione tra immagini e luoghi diversi, una miscela errata che ad esempio colloca Dallas in un panorama desertico – quando invece tutto attorno ci sono praterie – e pretenderebbe di infilare uno Stetson da cowboy in testa a qualunque abitante dello stato. Di questo atteggiamento ha parlato, nella settimana che ha preceduto il Super Bowl XLV, un dirigente dell’ufficio turistico di Dallas, centrando il problema con la nitidezza di chi ormai ne ha viste e sentite di tutti i colori: «I media stranieri che vengono da noi vogliono vedere le mandrie di bestiame, i pozzi petroliferi, i tumbleweeds (cespugli rotolanti, ndr), i cowboy. E rimangono di stucco quando arrivano e scoprono un’area metropolitana moderna. Pensate a Fort Worth, perfetta miscela di spirito cowboy e cultura, e pensate a tutte le cittadine del circondario che vibrano di attività. Se poi volete distrarvi c’è sempre lo shopping, che a noi in fondo ricorda un po’ il football perché è uno sport di contatto…». Ecco, il football. Il Texas è anche questo, ovviamente. Anzi, nel libro che avete appena iniziato non ci sarebbe Texas se non ci fosse il football. Tradizione, passione, cultura, ossessione: mescolate tra loro come a ingannare l’osservatore e complicare il suo compito, giornalistico e storico, di distinguere ciò che è realmente locale e genuino da ciò che può invece valere per qualsiasi luogo della Terra a proposito di qualsiasi sport.
Continua sul libro…
(Brano tratto dal primo capitolo di Football & Texas, autore Roberto Gotta, editore Indiscreto: in vendita sul web e in libreria)

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