Il mito che non si poteva toccare

11 Maggio 2010 di Stefano Olivari

di Roberto Chiodi
L’inchiesta giornalistica sull’accomodamento di Italia-Camerun del Mondiale 1982 fu silenziata dai media e ovviamente dagli addetti ai lavori. Tutto si può dire, tranne però che mancassero le prove…

Caro Olivari, sono Roberto Chiodi, ho firmato con Oliviero Beha “Mundialgate”, leggo solo adesso la tua recensione e vorrei limitarmi a un paio di aggiunte.
Quando scrivi che non producemmo prove (“nessuna confessione e nemmeno un’accusa precisa che sia una. Non diciamo prove, ma almeno accuse”) sei in errore. Sarebbe più corretto dire che nessuno volle prendere in considerazione le prove che avevamo addotto. L’uomo dei servizi segreti, responsabile della sicurezza della comitiva Camerun, dichiarò che dopo la partita aveva posto praticamente agli “arresti domiciliari” tutti i giocatori e che li aveva interrogati a uno a uno, senza tanti complimenti. I sei professionisti ammisero che avevano giocato in quel modo perché avevano avuto la promessa di 30 mila dollari a testa. E che i soldi, alla fine, se li era probabilmente intascati tutti l’allenatore, in scadenza di contratto e mai rientrato in Camerun. In patria però erano tutti in festa perché il Camerun era l’unica squadra che ai mondiali non aveva mai perso e questo indusse i vertici dei servizi e del governo ad archiviare i verbali con le confessioni. Quindi, la prova c’era: era la dichiarazione di un pubblico ufficiale, colui che aveva condotto gli interrogatori e ottenuto sei confessioni. Cosa si voleva di più? Quale elemento, in casi del genere, può essere valutato “prova”? Esistono, nella casistica delle corruzioni in partite di calcio (corruzioni che pure esistono, su questo dovremmo essere d’accordo), episodi più eclatanti, più “provati” di questo? Di cosa avevano bisogno i colleghi e i tifosi per convincersi che c’era stata una pastetta? Il film del passaggio dei soldi? Le ricevute di pagamento?
Lasciamo perdere l’aspetto tecnico, la partita e la farsa che ci fu nel far pareggiare il Camerun. Il vicecapo dei servizi segreti era un’autorità governativa, aveva un ruolo, era anche lui in panchina (come pure Moscatelli, pensa un po’!). Ci disse che aveva ottenuto le confessioni. L’abbiamo filmato e registrato. Ma che altro dovevamo produrre? Andammo per scrupolo in Corsica e riuscimmo a rintracciare e far parlare Moscatelli davanti a una cinepresa. Lui ammise che a Vigo era stato avvicinato proprio per indurlo a offrire, tramite Milla, soldi ai professionisti affinché ci fosse la garanzia del pareggio. La trattativa non andò in porto proprio perché mancava la garanzia assoluta che invece fu raggiunta coinvolgendo nella corruzione anche l’allenatore-mercenario.
Abortita la nostra inchiesta giornalistica proprio perché i colleghi dicevano che “non c’erano le prove”, non scrivemmo mai il seguito della storia che pure ci fu. E cioè: l’avvocato di Michele Zaza (Michele ‘o pazzo, boss camorrista, re del contrabbando) era guarda caso il presidente Sordillo. Zaza ci disse che Sordillo si era fatto consegnare da un fiduciario di Zaza stesso a Vigo 400 mila dollari alla vigilia di Italia-Camerun per “sistemare” la partita sul pareggio. Questa dichiarazione il camorrista la fece prima al suo avvocato, poi a me, poi al segretario di un partito politico che andò a trovarlo a Regina Coeli insieme a Beha. Se anche queste circostanze le avessimo mai rivelate, credi che sarebbero bastate? O non si sarebbe continuato a sostenere, come fai tu: “nessuna confessione, nemmeno un’accusa che sia una”? Cordialmente.
Roberto Chiodi

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