Come sessant’anni fa, senza Mondiali né case chiuse

12 Giugno 2018 di Oscar Eleni

Difficile consolarsi cantando Nel blu dipinto di blu se a gennaio la Nazionale di calcio era diventata azzurro tenebra, fuori dai Mondiali per la prima volta (la prima senza averlo scelto). Modugno e Dorelli su Nilla Pizzi e la Torrielli a Sanremo. Provavamo a illuderci che si potesse ancora Volare, ma da minorenni facevamo fatica a capire i musi lunghi di quelli un po’ più grandi, i disperati vicini alla maggiore età che si trovarono esclusi dal “piacere nazionale” dopo il successo della legge Merlin che aveva chiuso le case di tolleranza.

Brutto inverno per chi viveva il calcio come passione, mania, in una famiglia legata ai destini del Milan, digiuno per le sconfitte anche se in tavola c’erano meraviglie, soprattutto nel derby, trovando come unica consolazione tutta italiota, in quelle giornate buie di gennaio nell’Ulster, la tempesta che aveva investito il dottore friulano Foni, mal sopportato per i due scudetti vinti con l’Inter giocando peggio, dicevano nelle case rossonere, del Milan svedese. Non erano pochi quelli che pensavano di potersi rifare in qualche modo su di lui, dopo la disfatta a Windsor Park contro l’Irlanda del Nord che puniva le contraddizioni di un calcio che stava, più o meno, come quello di oggi, e che nella sfida decisiva scelse la via degli oriundi. Peggio: la via delle tre punte, Ghiggia, poi espulso, Pivatelli e Da Costa sostenuti, si fa per dire, da Montuori e Schiaffino. Quattro passaportati di talento che lasciarono nuda una difesa infilzata da un tiro di McIlroy da 35 metri e dal contropiede di Cush che distrusse il povero Bugatti dividendo la terra degli esclusi fra chi era per il bel gioco o chi pensava che per natura potessimo vivere solo sul contropiede.

Senza notti magiche si aspettava il Mondiale degli altri vedendo crescere la Torre Velasca, dividendoci, come sempre, fra innocentisti e colpevolisti per il delitto di Maria Martirano per cui fu accusato il marito Fenaroli, allarmati dai banditi di via Osoppo a Milano, senza sapere che ad agosto Ercole Baldini ci avrebbe consolato vincendo a Reims il mondiale di ciclismo, ancora col magone per una grande finale di Coppa campioni che il Milan di Gipo Viani perse al famigerato Heysel di Bruxelles contro i maghi del Real Madrid. Due volte in vantaggio (Schiaffino, Grillo), due volte raggiunti (Di Stefano e Rial) e poi infilzati nei supplementari dalla saetta Gento.

Era l’illusione che non tutto nel nostro calcio fosse da buttare, ma intanto per far diventare più dolorosa l’attesa del Mondiale da vivere senza l’Italia ecco i brasiliani del dottor Feola fare una tappa italiana prima di raggiungere la Svezia, ancora con i lividi del Maracanazo 1950, le botte con gli ungheresi e l’eliminazione nel 1954. Prima Firenze e poi Milano. Amichevole contro l’Inter. Lo stato maggiore rossonero in tribuna. C’era da vedere Josè Altafini, detto Mazzola, o Mazola come scrivevano in Sudamerica. Vent’anni, tanti gol nei suoi regni brasiliani. Era lui l’attrazione perché il diciassettenne Pelè e la sua giga venivano ancora tenuti nascosti. Gollasso di Jòse, come lo chiamò poi Rocco, sforbiciata appoggiandosi a Cardarelli. Visto e acquistato. Centotrentacinque milioni. Si compravano begli appartamenti con quei soldi.

Ciao Brasile, buona fortuna dicevamo dalle tribune di San Siro senza sapere dove avremmo rivisto quei giocatori meravigliosi perché la televisione era in bianco e nero e l’avevano in pochi. Poi non c’era l’Italia. Questa volta uno potrà decidere, anche se sarà tutto in chiaro, ma oggi come allora si fingeva di non essere interessati. Senza l’Italia che Mondiale potrà mai essere? La solita nenia di chi era avvinto al ricordo come l’edera di Nilla Pizzi, di chi cantava più volentieri “Amare un’altra” sempre della Pizzi, ma in quel Sanremo, accoppiata a Gino Latilla per prendersi il terzo posto.

Ecco l’inno giusto non potendo amare Azzurra. Bastava scegliere. Chi diceva di saperne puntava tutto sulla Svezia del rude George Raynor. Anche perché era la più italiana di tutte con il trentacinquenne Liedholm milanista, l’atalantino Gustavsson, il Kurt Hamrin che cominciò la sua grande storia col Padova, il laziale Selmonsson e l’interista Nacka Skoglund, oltre al professor Gren che dopo il Milan deliziò Fiorentina e Genoa. Qualcuno pensava alla Francia del Fontaine di Casablanca. Non aveva scelto male, fu il capo cannoniere. Ma quello era il Mondiale dei prodigi e allora forza Garrincha, Didì, Vavà, ma, soprattutto Edson Arantes do Nascimento, il Pelè dei sogni, più giovane marcatore del Mondiale, contro il Galles, il più giovane a segnare nella finale mondiale e quello stop di petto e la palombella per il primo dei suoi gol sono storia come il colpo di testa del 5-2 finale che fece scattare in piedi per l’applauso anche i reali di Svezia.

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