Trust, il rapimento Getty e l’orrenda Italia degli anni Settanta

2 Maggio 2018 di Indiscreto

La visione di Trust – Il rapimento Getty ogni mercoledì su Sky Atlantic, con ovvia personale differita stasera vista la concorrenza di Roma-Liverpool, ci ricorda una volta di più che l’Italia vista dagli stranieri è sempre un’Italia interessante: piena di luoghi comuni, ovviamente, ma anche con squarci di dura realtà che raramente nelle nostre fiction televisive più popolari si vedono. Quanto all’aspetto caricaturale, Gomorra e Romanzo Criminale non sono da meno rispetto a produzioni straniere come Trust. Che, come dice, il titolo, è la storia del rapimento di John Paul Getty III avvenuta nella Roma del 1973, un fatto usato come filo conduttore per affrescare l’Italia di quegli anni.

In realtà un finto rapimento, che il giovane Getty aveva ideato insieme a piccoli criminali romani con l’intento di estorcere soldi al nonno (John Paul Getty I, re del petrolio e uno degli uomini più ricchi del mondo, interpretato da uno strepitoso Donald Sutherland) per pagare debiti suoi e di amici simil-hippie, ma con la situazione presto scappata di mano e il ragazzo per così dire ‘ceduto’ all’anonima sequestri calabrese che chiese per la sua liberazione 17 milioni di dollari. Un dollaro del 1973 valeva circa 620 lire, che come potere d’acquisto significano 4,60 euro di oggi (abbiamo usato la tabella di conversione del Sole 24 Ore). In sostanza è come se oggi per il figlio di Zuckerberg, mettiamo, si chiedessero 80 milioni di euro di riscatto.

Il sequestro, diventato quindi vero, ebbe aspetti cruenti come il taglio dell’orecchio del rapito e l’uccisione di vari personaggi collaterali, ma finì comunque (non è spoiler, ma storia già straconosciuta) con la liberazione dell’ostaggio dopo 5 mesi di prigionia. Il lato interessante dell’opera girata da un vero dream team di registi (Danny Boyle, Simon Beaufoy e Christian Colson) e con attori come Hilary Swank (fa la madre del rapito) e Brendan Fraser (il mitologico negoziatore Fletcher Chace, nostro personaggio preferito) non è quindi il ‘come va a finire’, ma il racconto dell’Italia dell’epoca, con qualche reminiscenza della dolcezza degli anni Sessanta, qualche vaga rimasticatura culturale di ciò che stava accadendo all’estero e una criminalità comune che è stata dimenticata ma che era a livelli pazzeschi, inimmaginabili oggi. Sequestri, rapine, violenze di ogni genere: parlando di reati contro il patrimonio, quelli per cui mai c’è stata vergogna sociale nel denunciare, tutte le statistiche dicono che il ventennio peggiore nella storia d’Italia è stato quello fra il 1970 e il 1990 (Rimandiamo a questa interessante e approfondita analisi sul sito della Treccani). Poi c’è stato anche il terrorismo, rosso e nero, vivisezionato in ogni suo aspetto, ma al di là di alcuni fatti eclatanti il suo impatto sulla vita quotidiana delle persone era quasi inesistente. Ed è stato ingigantito fuori tempo massimo, dalle parti politiche interessate, soltanto in ottica elettorale.

Il merito di questa serie è averci ricordato che nei Settanta la violenza non politica aveva reso l’Italia un paese sull’orlo del collasso e che adesso noi persone comuni stiamo infinitamente meglio, con buona pace dei cantori della sfiga e della decrescita felice. C’è più storia d’Italia reale in Trust e nei film poliziotteschi con Maurizio Merli che in tutto il cinema italiano, ripiegato sulle seghe mentali di una classe socioculturale ben precisa.

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