Il Giro a Yates e il futuro alla Colombia

21 Maggio 2018 di Simone Basso

Da Gerusalemme al Trentino, passando per la Sicilia, i pallini (a pois ma rosa, non rossi…) si sprecano, anzi si moltiplicano al pari di organismi autotrofi. Si materializzano all’improvviso, come ieri pomeriggio nella valle del Cadore, quando vanno in fuga Nibali e Quintana: ma di nome fanno Antonio e Dayer…

Sappada non è un luogo, bensì dal 1987 – dalla coltellata di Stephen Roche al compagno in rosa Roberto Visentini – uno stadio mentale del ciclismo e dell’umanità. Accade all’improvviso ma non troppo, imbucando il Costalissoio Bosco dei Giovi, un gpm di appena 3,9 chilometri che fa un po’ Cote de la Haute Levée della Doyenne: il trappolone coinvolge all’inizio il solo Chris Froome, rimasto indietro in discesa quando mena Miguel Angel Lopez, che è tutto meno che un discesista. Poi, alla seconda accelerazione, Simon Yates lascia lì Tom Dumoulin e gli altri ras: diciassette chilometri di assolo, una roba alla Laurent Fignon, confermano un fuoriclasse in divenire.

Yates lo annunciammo fin dalla Terrasanta. Nell’anno dei ventisei, il gemello di Adam (che è forte forte pure lui) era – alla vigilia, per i media generalisti – il britannico di scorta, dopo l’annunciatissimo Froome. Al contrario del quattro volte vincitore del Tour de France, che è africano nell’anima e apolide nel destino, il mancuniano è inglese anche nelle origini (ciclistiche). Simon arriva dalla pista, come la maggior parte dei brit, ed è nato svelto: lo vedemmo under 23 a Fossano, al Tour de l’Avenir 2011, vincere – alla Moreno Argentin – sulla salitella di Via Roma. Ha qualcosa, nel fuorisella elegante, nello stile, dell’Andy Schleck che fu; il cambio di ritmo, la sparata, ci riporta al primissimo Damiano Cunego. Nel ciclismo moderno che, per esigenze televisive, pende verso il garagismo simil Vuelta, è un topo nel formaggio. La sua crescita, al di là dell’inciampo con la terbutulina di due Parigi-Nizza fa (un broncodilatatore, ma non chiamandosi Froome non allertò il televoto degli agonisti da divano), è stata graduale: la terza settimana ci dirà cosa farà da grande, nella seconda parte di una carriera che promette tuoni e fulmini.

Tom Dumoulin, malgrado una Sunweb deboluccia, conta le pedalate che lo separano dalla Trento-Rovereto, i 34 chilometri a cronometro che potrebbero ribaltare la contesa. Anche salendo lo Zoncolan, pur gestendosi bene, la farfalla di Maastricht – in salita – non ha mai mostrato le progressioni indurainesche dell’anno scorso, soprattutto quelle sul Blockhaus e verso il Santuario di Oropa. Martedì 22 nella prova contro il tempo, la strada da Trento a Mattarello, forse fino ad Aldeno, è per specialisti puri, da rapportone. La curiosità è capire quanti secondi al chilometro l’olandese infliggerà alla maglia rosa. Sopra i tre secondi, il Giro ritorna sul filo, e il testa a testa Yates-Dumoulin potrebbe essere deciso dalle mosse degli altri, di quelli che corrono per il podio e i successi parziali.

I centomila dello Zoncolan, sabato, contrapposti ai centomila del matrimonio reale a Windsor, illustrano la biodiversità del pianeta terra. Si fa tutto, in favore di telecamere e telefonini, per esserci: anche se, a dispetto dei dinosauri e di Babbo Natale che corrono a fianco dei corridori, nulla è più pythonesco di due milionari che dicono “in ricchezza e in povertà”. Tornando alla strada o ai marcapiedi, dove è vero quel che vedi, sul Kaiser ha vinto di cazzimma, e di classe, un Froome quasi redento. Il keniano bianco, oltre che per un inverno complicato, ha smarrito il Giro il primo dì, in quel di Gerusalemme, nella ricognizione della crono. La caduta pesante, sul fianco destro, si è riverberata, nelle conseguenze, per molte giornate. Si narra che il power meter di Froomey segnalasse uno sbilanciamento della pedalata, a favore della gamba sinistra (sana), tipo 75 a 25, senza molte speranze per le mire del britannico. Che è accompagnato da un Team Sky di seconda fascia, con le doverose eccezioni di Sergio Henao e Wout Poels. Quest’ultimo, in ripresa dopo l’incidente di marzo, ha spianato – da metronomo – almeno tremila metri di Zoncolan prime delle (due) frullate del capitano. Guardando l’orizzonte distante, fine settembre, attenti all’olandese sulle rampe del complicatissimo Mondiale di Innsbruck. È uno con una Liegi-Bastogne-Liegi in bacheca, mica un fesso.

L’impressione, nel duello rosa, è che l’inerzia sarà stabilita dai Froome, dai Thibaut Pinot e Domenico Pozzovivo (l’unico superstite italiano nella Generale), dai Lopez: il resto è già mancia. La frazione numero diciannove, la Venaria Reale-Jafferau di venerdì prossimo, sembra disegnata apposta per un golpe. Nella storia recente, la tappa del Colle delle Finestre ha riservato sorprese: nel 2015 Alberto Contador, attaccato da Mikel Landa, rischiò di perdere la rosa. E la Susa-Cervinia di sabadì, prima delle vacanze romane, 214 chilometri e tre colli in successione, completerà l’opera.

La Saint Vincent-Sestriere di tre anni orsono – col Pistolero in crisi – se la aggiudicò, grazie anche all’ammiraglia Astana, Fabio Aru. Il gorilla sulle spalle del sardo era evidente da questa primavera. Rimanendo all’Arunovela, alla programmazione senza corse, a un team manager fuori dalla realtà odierna, alla pressione dei media (ignoranti perchè ignorano lo specifico di questo sport) sul solo atleta tricolore spendibile (..) dell’oltre Nibali. Gli sceicchi, che pagano il giocattolo UAE Emirates, prima o poi chiederanno spiegazioni. La vicenda illustra, nel piccolo, i difetti di un movimento italiano che pensa di essere (ancora) importante, quando è diventato invece provincia e retroguardia. Che vive, sempre, di un passato prossimo verosimile (bagnato nel rancore) e di un presente urlato, caciarone. Al solito, i riflessi sono quelli del paese stesso: inutile pretendere altro quando, per calcolo meschino, si finisce di vedere il mondo e ci si limita a guardarlo dal buco della serratura.

IL PANORAMA DEL CICLISMO – Lo spot perfetto di Israele, tre dì fra la Terrasanta e il deserto del Negev, è stata una lezione delle possibilità (infinite) di valorizzazione territoriale di questo sport. Tornati nel Bel Paese, la Sicilia ci ha offerto visioni uniche: gli spettri di Poggioreale Vecchia, demolita dal terremoto del 1968 e abbandonata dall’uomo, che sembra un’installazione (crudele) di arte contemporanea pensata da Madre Natura, si reiteravano col Cretto di Alberto Burri, presenza metafisica in quel di Gibellina. Non è mai scontato considerare quanto legga il mondo, attraversandolo di fretta col suo corteo coloratissimo, una gara ciclistica.

Al di là dell’affaire Froome, comunque un riassunto (politico) eccellente del divenire, assistere allo spettacolo del Giro, qualche settimana dopo le Ardenne, i muri e il pavè tra Fiandre e Francia, ai gesti degli atleti, alla ritualità della folla (tanta, ovunque), ci suggerisce la domanda delle cento pistole. Sul ruolo e l’utilità effettiva dell’UCI nel dirigere il carrozzone professionistico. La storia dell’UCI si è sviluppata, nel Novecento, in simbiosi con quella del ciclismo pro. Almeno due biografie di presidentissimi, Adriano Rodoni (Lucifero) e Hein Verbruggen (Mefistofele), padri padroni del giocattolo, spiegherebbero le dinamiche che – nel bene e nel male – hanno caratterizzato il circo della bici. Appare evidente, e con l’arrivo di David Lappartient (un decisionista) lo è ancor di più, che il governo dell’ambaradan che si riconosce nel World Tour non possa più dipendere dalla lune della politica. Il distacco – economico, organizzativo, regolamentare – del movimento della strada, ormai incolmabile col resto dell’offerta ciclistica, è una realtà. Il circuito meriterebbe la gestione, esterna ai palazzi della Federazione, di una struttura manageriale. Una lega sul modello nord americano (NBA, NFL, etc.), irraggiungibile nelle dimensioni finanziarie e mediatiche ma riproponibile nel produrre idee (vincenti) e marketing, e un sindacato corridori stile ATP che tolga definitivamente ad Aigle l’influenza e svecchi il prodotto venduto. Che, da Tel Aviv allo Yorkshire, passando per l’Etna e la Romandia, ha potenzialità (globali) ancora inesplorate.

Un universo in espansione, che ha poco da condividere col Sei Nazioni (Italia, Francia, Benelux, Svizzera, Spagna e Germania Ovest) che fu, non può scaturire dai bizantinismi dei gran visir delle poltrone di un Renato Di Rocco, per esempio, inscalfibile presidente della Federazione Italiana. Il caos di una guida politica, che dipende giocoforza da un pacchetto di voti, produce la proposta di un Giro d’Italia ridotto a soli diciassette giorni (!) o la contemporaneità della corsa rosa stessa col Tour of Yorkshire e quello di California. Il primo, la manifestazione di maggior successo popolare (sulle strade) dopo il Tour de France, il secondo una vetrina (di lusso) nell’importantissimo mercato americano. Pensate che Peter Sagan, testimone numero uno del marchio Specialized (californiano…), non corra il Giro per amore disinteressato dello Stato dell’Oro? Un gioiello come la prova iridata, spostata a fine settembre e con un format allargato per consentire incassi più generosi (principale risorsa di sostentamento del grand hotel UCI), produce solo conti in rosso per le località ospitanti. È costata troppo persino un’edizione, esemplare, come quella di Bergen. La Federazione chiede denaro, alle squadre, alle corse, e non produce novità e migliorìe di alcun tipo. Da decenni si dovrebbe (ri) provare, nell’anno delle Olimpiadi, con un Tour o un Giro per nazionali: ma con gli sponsor (degli atleti) in bella evidenza. In cambio, al Mondiale della stessa annata, sarebbe affascinante proporre una sfida iridata con i colori dei club. Con l’arrivo del Mondo Nuovo, delle tecnologie che implementano la visione (e la passione) della contesa, un’esaltazione della natura, dell’umanità, di un mezzo meccanico geniale ed ecologico, regalerebbero scenari inusuali e gratificanti al ciclismo.

COLOMBIA, OMBELICO DEL MONDO – Miguel Angel Lopez scalpita, circondato dalla squadra più forte del Giro (Luis Leon Sanchez, Jan Hirt, Tanel Kangert, Pello Bilbao…), l’Astana, fuenteggiando con l’istinto irrazionale di chi vorrebbe attaccare, sempre, per recuperare il tempo smarrito. Superman, che conoscemmo (giovanissimo, ma oggi è comunque ventiquattrenne) al Tour de Suisse di due anni fa, per entrare nella cerchia dei ras deve imparare a stare in piedi nel gruppo. Un problema tecnico, grave, quella della conduzione della bici che, in nove giorni, lo ha già visto per le terre nella crono di Gerusalemme e in un prato, da pollastro, nella frazione di Caltagirone. Se impara, a limare nel plotone, Lopez si aggiungerà alla schiera dei tenori delle grandi corse a tappe. L’Etna, per un omaggio del compagno Simon Yates, ha riportato in primissima fila Esteban Chaves, dopo un 2017 sfortunato, uno che è già salito sul podio del Giro e della Vuelta (secondo e terzo nel ’16) e con un Lombardia in bacheca (sempre nell’annata d’oro 2016).

La tribù colombiana sta conquistando l’Europa, figlia di una tradizione consolidata e di un dna e voglie ataviche, di rivalsa con la storia, e anche di un approccio multidisciplinare (pista e mountain bike propedeutiche alla strada) all’avanguardia. Altrove, Rigoberto Uran e Nairo Quintana aspettano – fiduciosi – il Tour. Il Condor, che ci dimentichiamo essere un classe ’90, è il nostro favorito della prossima Grande Boucle: sempre che digerisca l’avvicinamento (complicato) alle Alpi e la convivenza interna – in Movistar – con l’Embatido Valverde e Mikel Landa… Al Giro, delle cosiddette seconde linee ci sono – tra gli altri – Sergio Henao, Jarlison Pantano, Darwin Atapuma e l’ex golden boy Carlos Betancur. In giro, sparsi per il globo, rimangono le promesse come Daniel Martinez, ventidue anni, settimo all’ultima Volta Catalunya, e le ruote velocissime (che demoliscono lo stereotipo del colombiano grimpeur) di Fernando Gaviria e Alvaro José Hodeg. La frattura di Gaviria alla mano sinistra, durante la Tirreno-Adriatico, ha influito e non poco sull’inerzia di alcune classiche tra marzo e aprile: alla Sanremo vinta da Vincenzo Nibali, per esempio, la Quick Step Floors non si sarebbe spesa per il pur ottimo Elia Viviani col colombiano in gara… Il due volte campione mondiale di omnium, ventiquattro primavere, se colma alcune lacune mentali, a Francoforte, il primo Maggio, al traguardo è scattato verso la deviazione delle auto e delle staffette (sigh), è il più serio candidato al ruolo (oneroso) di anti Sagan. Hodeg, un bambino (classe ’96) col fisico alla Alessandro Petacchi, ha prospettive luccicanti da velocista resistente.

E poi, ammirato al Tour de Romandie (secondo nella Generale e vincitore a Villars), ci sarebbe Egan Bernal: un 1997 col potenziale da dominatore dei Grandi Giri. Il moro di Zipaquira arriva dal rampichino e, tramite l’Androni Sidermec di Gianni Savio, è approdato nella formazione giusta al momento giusto: il Team Sky. Bernal, un puledro di razza, ha negli istinti qualcosa di Alberto Contador; stilisticamente, in salita, ci ricorda Oliverio Rincon, camoscio di un periodo – i Novanta – complicato (nella Colombia delle FARC e dei narcotrafficanti) non solo per quel che avveniva su una bicicletta. Un lustro, forse meno, e Bernal si prenderà il proscenio. Gli altri escarabajos faranno altrettanto. Ci sbilanciamo in una (facile) profezia: nel futuro prossimo, la Colombia diventerà la prima potenza mondiale del ciclismo.

“Si arrende ai suoi capelli spessi / Di Dio ti dice che sta lì a due passi / Ma mentre va indicando l’altopiano / Le labbra fanno il verso dell’aeroplano / Ah Sudamerica..”
(Paolo Conte)

Gli ultimi due capitoli sono stati pubblicati da Il Giornale del Popolo, il 15 maggio 2018, non più in stampa dal 18, per decisione dell’editore.  

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