Cosa resterà di Salvatore Ligresti? Speriamo niente

16 Maggio 2018 di Indiscreto

La morte non ha certo trasformato Salvatore Ligresti in un santo, anche se nei vari coccodrilli condanne e carcere sono state in certi casi trasformati in ‘disavventure giudiziarie’, espressione che può andare bene da Tortora a Riina. La sua figura è comunque giornalisticamente interessante, anche per il mistero che l’ha sempre avvolta: poche interviste (in pratica una sola, al Mondo), poca presenza mondana, poche amicizie ma tutte molto potenti, da Craxi a Cuccia. Per un breve periodo, a inizio millennio, Berlusconi pensò addirittura di vendergli il Milan, direttamente o al figlio Paolo. Si tratta forse dell’unico confronto da cui Yonghong Li esce vincente…

Trovare la presenza di Ligresti sui giornali prima degli anni Ottanta è difficilissimo, tanto è vero che abbiamo fatto fatica a trovare giusto un articolo del 1975 in cui si parla dell’inaugurazione del cinema Pasquirolo, da lui progettato (oggi non esiste più, purtroppo: lì vedemmo ‘La febbre del sabato sera’ in prima visione): ben poca cosa rispetto alla potenza che già l’ingegnere nativo di Paternò aveva non solo nell’edilizia, con gli immancabili inizi grazie al prestito di un direttore di banca lungimirante (chi vi ricorda?). Nient’altro, in tutti gli anni Settanta. Così di fatto Ligresti arriva al 1981, a quasi 50 anni (era del 1932), senza che nessuno del grande pubblico sappia della sua esistenza: le cronache si occupano di lui per il rapimento della moglie Giorgina avvenuto poco distante dalla sua casa di via Ippodromo, zona San Siro. La donna verrà liberata dopo quasi due mesi, a Origgio, dietro pagamento di 660 milioni di lire. Tutti e tre i rapitori faranno un brutta fine, ma del resto erano mafiosi e questi sono i rischi del mestiere.

Nella grande finanza Ligresti arriva ufficialmente nel 1984, con l’entrata della SAI nel capitale di CIR (la finanziaria  controllata da De Benedetti). Proprio la SAI è la base dell’entrata di Ligresti nei salotti buoni della finanza, non da inesperto (era stato grande frequentatore di Michelangelo Virgillito e Raffaele Ursini) ma da persona con le idee chiare, anche troppo: nel 1987, forse l’apice del craxismo deteriore e di una Milano con logiche abbastanza simili a quelle attuali, anche come retorica, Ligresti attraverso la sua finanziaria o la SAI aveva il 5,4 della CIR, il 4% della Montedison, l’1,2 della Pirelli, il 6,5 dell’Italmobiliare (Pesenti), il 5,6 dell’Agricola (Gardini) e tante altre partecipazioni in società di primo piano. Apparentemente quote di minoranza, in realtà quasi sempre azioni decisive per blindare patti di sindacato o cose simili architettate da Cuccia per tenere tutti al proprio posto. E poi terreni, immobili, hotel, editoria (socio di minoranza in vari giornali, proprietario di Telelombardia) e altro.

Parliamo del 1987 non per nostalgia anni Ottanta ma perché da lì in poi la storia di Ligresti è stata anche una storia giudiziaria, che vari libri hanno ben ricostruito. Una storia entrata ovviamente in Tangentopoli e finita con plurime condanne, fin quasi ai giorni nostri. Troviamo interessante notare come Ligresti sia stato uno dei pochi imprenditori coinvolti in Tangentopoli ad avere poi, pur ammaccato e impossibilitato a ricoprire incarichi ufficiali, una seconda vita con la sua Premafin: partecipazioni in Mediobanca, Unicredit, Montedison, Fondiaria, anche in RCS perché i giornali hanno sempre il loro peso. Chiaramente dopo la morte di Cuccia, avvenuta nel 2000, Ligresti è stato un altro Ligresti: sempre ricco e con le mani dappertutto, ma senza più le protezioni di un tempo. Certo è che il caso Unipol-Fonsai è stato la sua fine imprenditoriale (con questo termine non vogliamo offendere gli imprenditori veri), che al di là delle condanne per corruzione, falso in bilancio e aggiottaggio (che non sono un dettaglio), in paesi con un’etica diversa sarebbe arrivata tre decenni prima.

Cosa rimarrà quindi di Salvatore Ligresti? Tanti soldi ai suoi eredi, di sicuro. Ma anche una storia emblematica del capitalismo di relazione che ha quasi sempre governato la grande finanza italiana, che è cosa diversa dall’economia vera: finanzieri che spolpano il parco buoi, costruttori dipendenti dalla peggiore politica, giornalisti che raramente hanno raccontato le porcate dei Ligresti e di tanti altri. Insomma, speriamo che del ligrestismo non rimanga niente, anche se è più facile tagliare gli ultimi piani di certi suoi palazzi (è successo davvero, a volte ci passiamo davanti perché siamo di strada) non esattamente a norma che tagliare una mentalità.

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