The Post, lo Spielberg e il giornalismo di una volta

16 Febbraio 2018 di Indiscreto

Il cinema medio, quello del genere ‘stasera andiamo al cinema’, nel 2018 non ha più senso di esistere, ma The Post lo abbiamo visto lo stesso. La retorica di Steven Spielberg, che come imprenditore culturale rimane un genio ma come regista ha una poetica e un pubblico ormai alla Gramellini, è comunque accettabile nel nome dell’idea nobile di giornalismo che viene diffusa nel film. Impossibili gli spoiler, visto che si tratta di storia: in pratica la diffusione, nel 1971, di documenti segreti del Pentagono che attestavano che già nel 1966 il governo USA, rappresentato dal segretario alla difesa Robert McNamara (il presidente era Lyndon Johnson), si era reso conto dell’impossibilità di una vittoria militare in Vietnam. In altre parole, per cinque anni democratici (le basi della guerra erano state poste con Kennedy, poi Johnson ci aveva messo del suo) e repubblicani (il furbo Nixon, che all’inizio del suo mandato aveva addirittura intensificato l’invio di truppe), avevano mandato ragazzi americani a combattere una guerra che, al di là delle discutibili motivazioni, erano quasi certi di perdere.

Il New York Times fa lo scoop, ma la pubblicazione viene bloccata dal tribunale per motivi di sicurezza nazionale. A questo punto il giornale politico che più di tutti sente di avere preso il buco, cioè il Washington Post, cerca di mettere le mani sugli originali dei Pentagon Papers per poter andare più in profondità. Ben Bradlee (Tom Hanks), direttore del Post, scatena i suoi e alla fine riesce nel suo intento, anche se la vera protagonista è Katharine Graham (Meryl Streep), fra le altre cose amica di McNamara, divisa fra il bene immediato dell’azienda che sta per essere quotata in borsa e quello più a lungo periodo, derivante dalla credibilità del giornale. Ovviamente anche per il Post ci sono minacce legali, ma gli aspetti interessanti del film non sono quelli storici, noti e stranoti.

Spielberg riesce a restituire bene il fascino della carta stampata non di due secoli fa ma degli anni Settanta del Novecento, con tanto di lastre, linotype, correzioni in tipografia. Per non parlare del modo analogico di fare giornalismo, dal telefonare con un sacchetto di monetine allo stampare tutto per trovare correlazioni che oggi un banale ‘Cerca’ di Word troverebbe in due secondi. Non è che la tecnologia di una volta rendesse migliore ciò che si scriveva, sempre legato l’onestà degli scriventi e alla qualità dei lettori: alla fine la scelta di pubblicare o non pubblicare non dipende certo da Internet, dal piombo o dalla distribuzione.

Tasse da pagare: la Streep eroina progressista (ma la Graham il giornale lo aveva ereditato e le sue amicizie erano bipartisan: famose quelle con i Reagan e Warren Buffett), Nixon cattivo e torvo (ma l’intervento in Vietnam era iniziato con Kennedy, sotto forma di consiglieri militari, ed era diventato massiccio con Johnson) senza sfaccettature, una spruzzata di Watergate (uno scherzo se paragonato al caso Obama-NSA). Da ricordare che il film, il trentunesimo con Spielberg ufficialmente alla regia, è fatto da americani per americani e quindi fra le righe si vuole suggerire che la stampa libera dovrebbe sempre avere un atteggiamento aggressivo verso il potere, quindi in definitiva contro l’odiato Trump (con Obama invece si esaltava Michelle che curava l’orto). Un pregio del film, nella sua ben confezionata medietà? Ti fa venire voglia di comprare subito un giornale, o di aggredire fisicamente il primo manager che ti dice che ‘oggi le notizie sono commodity’. Spielberg comunque è più vivo del giornalismo che rimpiange, magari con l’imminente Player One (tratto da un libro eccezionale, consigliabile a tutti) ci darà un altro capolavoro al livello di Duel, dello Squalo e di E.T.

Share this article
TAGS