Pianigiani non si tocca, Proli nemmeno

17 Febbraio 2018 di Oscar Eleni

Oscar Eleni mimetizzato da scarpa chiodata nella bottega fiorentina di Stefano Bermer in Borgo san Frediano. Incantato dalla storia scritta per Sportweek da Carlo Annese sul sessantenne attore inglese Daniel Day Lewis. Tre premi Oscar. Un gigante. Bello ritrovare uno che scriveva anche bene di basket nelle giornate fiorentine della Coppa Italia dove il motivo ricorrente per le favorite vergognosamente eliminate è quello del Barbarossa. “Passame er sale”. No, niente vino per chi ha disonorato maglie di cui se ne strafotte. Certo brave le avversarie che hanno smascherato questi soldatini di sventura, ma dopo aver fatto i complimenti alla bellissima Cremona del Meo Sacchetti, alla Torino peccatrice e rielaborata, ben diretta dall’esordiente Galbiati, dopo aver scoperto in Sodini l’allenatore dell’anno per il lavoro fatto su Cantù, dentro e fuori dal campo, lasciateci un attimo per trovare tutte le parole giuste che dovrebbero mandare al rogo Avellino, povero Pino Sacripanti diventato bersaglio, Venezia, ah Venezia, Milano, ohibò ragazzi Armani.

Questa rubrica anticipa ma non conclude il discorso sulla coppa che manda la classe operaia in paradiso. Lo faremo lunedì a giochi conclusi. Adesso occupiamoci dei peccatori e se non siamo stupiti dal rendimento di Avellino che già batteva in testa nelle ultime settimane, se non ci sentiamo sorpresi dal buco nell’acqua della Venezia impigliata nelle reti torinesi perché giocavano ben male da un po’ di tempo, vi dobbiamo dire che Milano ci ha sbalordito. Una squadra nata proprio per questo tipo di partite senza un domani, una società dove le sconfitte, fin troppe, portano quasi sempre ai licenziamenti, come si fa in azienda, con lo stile che ha fatto apparire le purghe staliniane momenti di riflessione a freddo, si è sbrodolata i calzoncini troppo lunghi e troppo larghi.

Tutti a disperarsi per Giorgio Armani che impassibile guarda i campioni ingaggiati dal trust di cervelli messo al servizio della gloriosa Olimpia 1936. Vero. Guai se si stanca lui. Avete visto cosa succede quando escono i grandi. Da Treviso a Pesaro, alla Bologna che, almeno in casa Virtus, ci ha messo un po’ per trovare l’uomo della provvidenza. A Milano bosco verticale sapete come è andata dopo i Gabetti. Da sentir freddo ancora oggi. Giusto preoccuparsi, non per i soldi che spende Armani, cosa volete che sia per il suo impero, un investimento che negli anni ha dato 2 scudetti, 2 coppe Italia dietro la spesa non certo comune di oltre 120 milioni di euro? La paura è che questa sua creatura che non ha quasi mai i colori che gli piacciono, non è fatta con il velluto che ama, diventi un peso per l’anima. Eh sì, è una squadra da giorno della marmotta. Da quando è stata presa in gestione da re Giorgio abbiamo letto sempre le stesse cose: inizio sgargiante, tutti in passerella. Col passare del tempo dichiarazioni di affetto per gli uomini scelti. Almeno fino a primavera. Anche dopo, Anche dopo qualche successo fisiologico.

Adesso siamo di nuovo davanti alla curva che più di tutte avrebbe ragione di cantare “Passame er sale” piuttosto che stonare un Mia bela Madunina come fa spesso. Come sempre l’inverno europeo ha portato un’aria cupa su una rosa troppo ampia se gestita con questo paternalismo, cercando di giustificare il tutto con infortuni che in confronto a quelli degli altri, degli avversari, sono raffreddori temporanei. Questa squadra che era sotto di 14 con Brindisi impegnata a salvarsi, che ne ha prese tante anche da avversarie di peso inferiore, in Italia e in Europa, questo gruppo di leoni malandrini che ha incassato la stangata con l’emoticon vergogna scritto in faccia, senza neppure la rabbia di Robert Shaw quando lo fregavano Newman e Redford, questa squadra da oltre 20 milioni di euro ha preso 105 punti dai ragazzi del Cantuki che non sanno neppure dove si nasconda il loro proprietario che vive in esilio.

Era destinata all’estinzione, se non fosse arrivato un cireneo (purtroppo poi pentitosi) in tempo non si sarebbe neppure iscritta, la sua presidentessa è squalificata. Sul campo di Firenze non poteva presentare per infortunio il capocannoniere Culpepper e il lungo Crosariol che nel suo placido trottare era pur sempre presenza importante sotto canestro. Quando Pianigiani doveva fare un cambio mandava dentro calibri da 90 come Bertans, Jerrells, Gudaitis, il Pascolo rimpicciolito e confuso, il Cincia capitano credente davvero, magari il bistrattato Abass, usato solo nel terzo quarto come a Brindisi nella rimonta, avendo lasciato in tribuna M’Baye, Tarzewski e Kalnietis, mentre Cantù doveva affidarsi a Maspero, Parrillo e persino Tassone. Insomma altro che Davide contro Golia. Questi dell’ Armani avevano la spada e pure la fionda, oltre ai sassi che, purtroppo si sono visti tirare indietro. Come spesso d’inverno, sovente a primavera, molte volte anche in estate la fine dell’avventura viene liquidata così da chi dirige la baracca: ”Pianigiani non si tocca”. Lo aveva detto pure per Bucchi, Scariolo, forse per Banchi prima che i serbiss della casa intervenissero nel nome del massimo egoismo, sicuramente per Repesa dopo la giusta denuncia pubblica alla fine di una partita vinta a Torino subendo anche troppo. “Dobbiamo vergognarci (ndr: s’el custa?), io per primo. Armani e tifosi scusateci”. Il minimo, anche se è inquietante leggere ancora sull’allenatore: ”Ho visto come ha preparato la partita e non è stato fatto nulla di quello che ha detto (ndr: ohibo!). Inaccettabile che giocatori con esperienza e stipendi come i nostri non producano la minima reazione. Squadra senz’anima che ha tradito società e tifosi”.

Tutto quasi vero, ma perché una squadra non rispetta gli ordini della panchina? Siamo sempre alla storia del pesce che puzza dalla testa mentre il coro canta Passame er sale. Prodigioso per le ferite, ammesso che qualcuno ammetta di essere stato almeno ferito da Robin Hood Sodini.

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