La serie A che ha triplicato i fan

24 Gennaio 2018 di Indiscreto

L’assegnazione dei diritti televisivi della serie A per il trienno 2018-2021 è ancora in altissimo mare e mentre stiamo scrivendo queste righe il traguardo-sogno del miliardo di euro a stagione, diritti per l’estero esclusi, appare lontanissimo. La storia del calcio in tivù è in ogni caso molto interessante, perché racconta molto dell’Italia prima ancora che del suo sport.

Tutto, da noi, iniziò nel 1959. Anche prima la RAI aveva trasmesso partite di serie A, ovviamente, ma con accordi presi caso per caso. Quello di quasi sessanta anni fa in sostanza fu il primo vero contratto fra la Lega e un’emittente televisiva, all’epoca l’unica esistente: in cambio di 60 milioni di lire a stagione la RAI avrebbe potuto trasmettere un tempo di una partita per ogni turno di campionato, in differita, la radiocronaca diretta di soltanto una partita e soltanto del suo secondo tempo, più in serata quelli che oggi chiameremmo highlights televisivi. Insomma, i servizi sulle partite, da contenersi rigorosamente entro i 4 minuti. Del 1963 è un accordo televisivo che fece scalpore: 200 milioni di lire a stagione, sempre usciti dalle casse della RAI, per i diritti radiofonici, gli highlights e la telecronaca di ben due partite in differita, una delle due per intero.

Facciamo un salto di trent’anni e arriviamo al 1993, quando la Lega (ai tempi guidata da Nizzola) decise di sfidare la Federazione (presidente Matarrese) chiedendo a Telepiù di quantificare l’offerta per un posticipo domenicale. Stiamo parlando di soltanto 25 anni fa, quando già in molti avevano i telefoni cellulari (proprio del 1993 è la tariffa TIM Family) e la tivù satellitare, con internet che di lì a poco si sarebbe diffuso presso il grande pubblico, quindi non proprio della preistoria. Alla fine la RAI aumentò di molto il suo impegno finanziario, passando da 108 a 135 miliardi di lire a stagione, per avere in sostanza quasi le stesse cose di trent’anni prima mentre per il posticipo di A della domenica sera e l’anticipo di B del sabato (ai tempi c’era una sola Lega per A e B) Telepiù mise sul piatto 44,8 miliardi l’anno, quantificando in 1.200 milioni il prezzo della singola partita di A e in 350 quello della singola partita di B.

Da non dimenticare che fino a pochi giorni prima la Lega sembrava disposta a cedere alla RAI anche anticipi e posticipi pay e che l’emittente di stato sembrava disposta ad investirci, prima di bloccarsi di fronte a due situazioni: l’impossibilità tecnica, in tempi brevi, di criptare il proprio segnale, ma anche l’obbligo politico (di fatto Telepiù era controllata da Berlusconi con il solo 10%, con Forza Italia che sarebbe nata di lì a poco e i due soci di maggioranza, Kirch e Cecchi Gori, che all’epoca di Berlusconi erano alleati) di non far morire la pay-tv. In quella pax televisiva fu coinvolta anche la Fininvest propriamente detta, che ottenne dalla RAI la subcessione dei diritti di 4 partite di Coppa Italia.

Insomma, l’esplosione dei diritti televisivi iniziò lì, ma non è banale effettuare una divisione. L’agognato miliardo di euro, diviso per le attuali 380 partite di campionato, significa 2,6 milioni a partita. Più o meno 5 miliardi delle vecchie lire. Certo, in un mondo con il web, il digitale terrestre, il satellitare diffuso, gli smartphone, eccetera. Per amore della precisione prendiamo le tabelle di rivalutazione monetaria dell’ISTAT: i 1.200 milioni a partita del 1993 significano come potere di acquisto 997.000 euro di oggi. Significa che una partita di A, dal punto di vista televisivo pay, oggi viene venduta al triplo rispetto a 25 anni fa. La domanda finale è retorica: gli italiani del 2018 interessati al calcio sono il triplo rispetto a quelli del 1993? Qualcuno si dovrà ridimensionare.

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