Il Guardiano del Faro, il signore del Moog

27 Novembre 2017 di Paolo Morati

Federico Monti Arduini

Negli anni Settanta la musica strumentale moderna è riuscita a guadagnarsi un ruolo di primo piano nei gusti del pubblico. Il Guardiano del Faro, alias Federico Monti Arduini, è uno dei nomi che hanno fatto da battistrada. Pianista, autore produttore e dirigente discografico, è stato inoltre tra i primi a diffondere in Italia l’uso del Moog, il sintetizzatore inventato dall’omonimo ingegnere americano, e poi diventato un segno distintivo di alcuni tra i dischi più innovativi dell’epoca, con grande applicazione nell’ambito del progressive rock. Abbiamo intervistato Monti Arduini per Indiscreto.

Partiamo subito dal moog. Come lo ha scoperto e iniziato a usarlo?
Il moog l’ho scoperto grazie a un amico che lo stava importando in Italia e che mi propose di farlo conoscere agli artisti della Ricordi, della quale ero direttore generale delle edizioni di musica leggera. Appena arrivato in sala vi appoggiai su le mani, e provando e riprovando rimasi talmente affascinato da quel suono trascinante da dire al tecnico del suono di registrare quanto stava producendo. Da lì aggiunsi le sovrapposizioni dando vita al brano che sarebbe poi diventato ‘Il gabbiano infelice‘. Il problema è che essendo dirigente della casa discografica non potevo anche esserne artista, al che chiamai un amico produttore chiedendogli di proporlo lui alla Ricordi per una sua pubblicazione, senza svelarne la paternità. Fu un successo clamoroso (siamo nel 1972) ma quando scoprirono che dietro c’ero io ebbi qualche problema con la dirigenza che voleva che non avessi altri interessi che la gestione delle loro società editoriali.

Che cosa ha rappresentato per la musica moderna l’invenzione del moog?

Di fatto il moog ha cambiato notevolmente la storia della musica moderna, rivoluzionandola, e posso tranquillamente affermare di aver avuto con ‘lui’ un rapporto umano. Se nella sostanza era all’epoca impiegato come strumento per aggiungere effetti sonori ai brani, spaziando attraverso innumerevoli possibilità, decisi di dargli un cuore, una personalità solistica, rendendolo il protagonista principale di un brano. Qualcosa di estremamente affascinante e innovativo. Bastava sfiorarne i tasti per produrre un universo mai sentito prima, capace di scatenare nuove idee per la costruzione degli arrangiamenti. Il moog ebbe in Italia un enorme successo e io stesso fui invitato da Robert Moog in persona nel suo stabilimento di allora, dove stava sviluppando la versione polifonica (il Polymoog) che mi regalò in anteprima. Certamente oggi c’è una sua riscoperta, pur rientrato nei ranghi iniziali di supporto, e va considerato senza dubbio lo strumento che ha aperto la strada dei sintetizzatori, rompendo gli argini per quella che sarebbe poi diventata la musica elettronica.

Facciamo ora un passo indietro sulle sue origini di musicista… quale è stata la sua formazione e quali sono state le sue prime esperienze musicali?
Ho sempre avuto il dono della musica, compreso l’orecchio assoluto. A 4 anni mettevo le dita sul pianoforte e riproducevo senza problemi un motivo sentito alla radio. I miei genitori, appassionati di musica classica, mi fecero studiare per 12 anni pianoforte. Erano amicissimi di Herbert von Karajan che ogni volta che veniva a dirigere alla Scala era ospite a casa nostra, e che cominciò a seguire i miei studi, suggerendo al mio insegnante dove intervenire. Nel frattempo iniziai a tenere i primi concerti, finché non mi imbattei nella musica jazz: un colpo di fulmine immediato, e una catastrofe per i miei genitori che non ne furono certo contenti, considerato che suonavo il contrabbasso in una band e avevo abbandonato il pianoforte e il genere da loro amato. Nel frattempo iniziai a comporre le prime canzoni e, grazie a un amico di famiglia che conosceva Antonio Casetta dell’etichetta Bluebell, firmai un contratto e mi fu chiesto anche di cantare. Il mio primo successo fu ‘Dolci Sogni’ del 1961, che si diffuse un po’ ovunque anche grazie alle interpretazioni di big dell’epoca come Fred Bongusto e Peppino Di Capri, che si esibivano nei night. Accadde tutto in modo inaspettato, visto che anche per mia indole non amavo apparire e il successo in veste di artista non era nei miei desideri.

Da dove ha origine Il Guardiano del Faro e che cosa ci può raccontare di quel periodo che le ha dato grande successo presso il pubblico? ‘Amore grande amore libero’ è in tal senso inevitabile citarla. Come è nato questo brano e si aspettava un riscontro di quel genere fino a portarla a vincere il disco per l’estate nel 1975?
Il nome ebbe origine dal fatto che i miei genitori avevano una casa al mare sulla scogliera di Porto Santo Stefano, sotto la quale c’era un vecchio faro ormai dismesso, dove noi ragazzi andavamo di sera a suonare. Ecco che scelsi Il Guardiano del Faro come nome misterioso quando la Ricordi chiese a chi attribuire Il gabbiano infelice. In giro c’erano cantanti di grande successo con un volto ben riconoscibile e tutti si chiedevano invece chi fosse quel misterioso personaggio in testa alle classifiche. Nel frattempo passai alla Polygram a dirigere tutto il reparto artistico, finché non fui chiamato dalla Rai che stava organizzando il Disco per l’estate aprendolo per la prima volta agli strumentisti. Anche se in realtà non avevo alcuna etichetta discografica, la RAI mi inviò comunque un invito a partecipare del quale poi mi dimenticai. Quando fui richiamato non avevo un brano pronto ma per fortuna conservavo in un armadio le registrazioni di tutto quello che avevo già composto. Apertolo, mi arrivò in testa un nastro e preso dalla curiosità lo ascoltai. Ancora una volta il caso. Registrai il tutto, con tanto di orchestra , arrivai a Roma e lo presentai alla giuria di selezione. Muto… non si sentiva nulla. Mi diedero allora qualche altro giorno per ri-registrare il tutto. Partecipai al Disco per l’estate e vinsi con un brano strumentale che rimase in testa alle classifiche per mesi. Era ‘Amore grande amore libero’, che fu un grande successo anche internazionale ai primi posti delle classifiche discografiche in paesi come Francia, Spagna, Germania, Svezia, Sud America, e anche in versioni cantate.

I brani strumentali all’epoca riuscivano a imporsi in testa alle vendite, qualcosa oggi di difficilmente pensabile. Cos’è cambiato nei gusti del pubblico e del suo modo di ascoltare?
Il pubblico prima di tutto chiede parole e musica nelle cui storie vuole immedesimarsi, capendole, per cui lo strumentale e stato sempre un prodotto marginale. Io stesso ho fatto anche altro, scrivendo canzoni di successo per Mina, Gigliola Cinquetti, Orietta Berti, Frankie Avalon, Andre Pop, Vikki Carr, Al Martino, Cliff Richard (disco di Platino con “All My Love“)… con la musica che nasce sempre prima delle parole e suggerisce al paroliere che cosa deve scrivere in termini emozionali, escludendo casi eclatanti come Mogol, che è un genio. È anche vero che all’epoca nei dischi venivano infilate suite strumentali lunghissime, qualcosa di oggi impensabile e che non riuscirebbe ad ottenere successo commerciale. Un brano come MacArthur Park non potrebbe uscire, considerata l’immediatezza richiesta oggi e i limiti imposti sulla durata delle canzoni che devono conquistare subito il pubblico.

Ha ricoperto diversi ruoli dirigenziali in case discografiche come Ricordi e Polygram, lavorato in etichette storiche come la Bluebell, oltre ad averne fondato successivamente anche una sua, la FMA. Ci può raccontare qualcosa in più di quegli anni e dell’evoluzione del settore discografico fino ad oggi?
È un settore totalmente stravolto, le vendite dei dischi sono crollate, e i soldi da investire sono pochi. Facciamo un esempio. In passato quando aveva un brano di successo che vendeva tantissimo una casa discografica faceva uscire anche un album che otteneva anch’esso successo, contenente più brani, e con un rientro importante che dava la possibilità di reinvestire. Oggi se va bene si compra una sola canzone che piace, e tutto diventa più difficile. Senza contare i danni fatti dalla pirateria e dalla cosiddetta ”copia privata” all’industria discografica, con le case discografiche che sono sempre di meno. Insomma, se da un lato l’evoluzione tecnologica e l’avvento del digitale hanno segnato svolte importanti, è anche vero che gli autori hanno subito grossi danni guadagnando ormai pochissimo per ogni download o ascolto. Un mestiere molto difficile dove riescono a stare a galla solo i grandi nomi che incassano grazie agli artisti che fanno i concerti.

Ecco che lei è molto attivo anche sul fronte edizioni musicali con una sua società, la Cafè Concerto, che si occupa della loro gestione. È un argomento di cui si parla poco…
Io sono nato come autore e sarò sempre dalla loro parte, anche in termini di visibilità. Ecco che ci stiamo organizzando per far sì che ogni volta che una canzone passa in radio o televisione vengano citati o mostrati i nomi degli autori. Questi ultimi devono essere tutelati e protetti, ed essere liberi di creare senza doversi preoccupare di altre questioni.

Cosa ne pensa dei talent show?
Io sono molto contrario, a partire dall’illusione che viene data a chi vi partecipa. Vero è che qualcuno riesce a emergere ma sono pochi a confronto di quelli che spariscono nonostante le grandi aspettative, con conseguenti frustrazioni. Sono trasmissioni mediatiche, dove spesso conta l’audience più del prodotto offerto, che danno un successo effimero a chi sogna (parenti e ragazzi) di poter sfondare in questo mondo. Inoltre c’è troppa offerta con la conseguenza che molte canzoni di qualità non hanno l’attenzione che meriterebbero. È come andare al ristorante e trovarsi davanti un menu con centinaia di portate. Qualcosa viene inevitabilmente e immeritatamente scartato. Come si farebbe a scegliere? E quale sarebbe la qualità?

E se fosse un talent per autori?

Non sarebbe una brutta idea, ma chi lo guarderebbe? Dovrebbe passare sotto la spada di Damocle dell’audience. E poi, non so se funzionerebbe. Un autore nasce autore e non può essere sottoposto e limitato a una serie di lezioni in una scuola, imbavagliato come un cane con la museruola. Deve avere un dono e una sensibilità particolare, esprimere quello che sente e confrontarsi poi con gli altri. Piuttosto il grosso guaio è che quando un brano ha successo tutti gli vanno dietro, cercando di riproporne lo stile. Gli autori straordinari non stanno invece a guardare le mode del momento, ma è qualcosa che si sta perdendo come il grande senso della melodia. Una volta noi italiani vendevamo canzoni in tutto il mondo, venivano i grandi artisti internazionali a chiedercele. Oggi non accade più.

Una grande vetrina per la canzone italiana è il Festival di Sanremo, nel 2018 affidato a Claudio Baglioni…
Sono curioso di vedere cosa Baglioni riuscirà a produrre, considerandolo una persona molto onesta. E quanta mano libera avrà nelle scelte, visto che le case discografiche fanno pressioni enormi, e lo spazio riservato ai più piccoli è limitato. Quanta gente in passato che avrebbe dovuto partecipare è rimasta esclusa, e viceversa… Ammetto che se dovessi occuparmene io avrei il mal di pancia, anche se con certezza privilegerei la parte autorale, cercando chi realmente mi emoziona.

L’ultima domanda: Vinile, CD o MP3? Dal punto di vista qualitativo ma non solo, e perché…
Io rimango un vinilista, con il suono che nasce dal disco imparagonabile a nessun CD o MP3. Il CD è qualcosa di asettico e non umano, ma per fortuna il vinile sta ritornando. Basta girare i negozi per rendersene conto. Poi i supporti digitali sono certamente comodi ma hanno causato un appiattimento del suono e della qualità dell’ascolto, anche per via della compressione che permette sì di portarsi dietro una grande quantità di brani, perdendo però in altro. Per me sono azioni ‘chimiche’ che snaturano il suono e che rispondono semplicemente alla domanda del pubblico di avere a disposizione tutto subito e a basso prezzo.

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