The Americans quinta stagione, soltanto possesso palla

13 Settembre 2017 di Stefano Olivari

Nelle serie televisive l’idea di base e l’ambientazione valgono spesso di più delle storie ed in generale della sceneggiatura, il caso di The Americans lo dimostra ancora una volta. La quinta stagione, in Italia appena terminata su Fox, ha riproposto i soliti personaggi ma lo sviluppo della trama è arrivato al suo minimo storico, con trovate indegne anche di Incantesimo (tipo il campione di hockey che decide di diventare informatore FBI). Protagonisti i sempre più tormentati e sempre meno cazzuti (anche se lei ha qualche guizzo di cattiveria, come quando ammazza la presunta ex collaborazionista dei nazisti) coniugi Jennings, alle prese con le missioni a volte assurde assegnategli dal KGB ma soprattutto con la gestione dei due figli adolescenti, l’idealista Paige e il concreto Henry, passato da nerd sfigato a sorta di Alex Keaton che cerca di entrare in scuole di prestigio. La ragazza è a conoscenza della loro doppia identità, forse pensa anche di ereditarne il lavoro come una volta era da noi in banca e tuttora accade nel mondo universitario, ma non sembra così vogliosa di trasferirsi in Unione Sovietica come meditano invece di fare i Jennings con l’obbiettivo di tornare Misha e Nadezda.

Tutti danno segni di stanchezza, oltre ai protagonisti: il vecchio Gabriel, il loro referente negli Stati Uniti, Oleg che nonostante il padre ministro tollera sempre meno le logiche sovietiche, Stan che addirittura vuole avere ruoli meno operativi nell’FBI, il pastore Tim che se ne va in Argentina accettando un’offerta ispirata da una onlus teleguidata dall’URSS. Tutti i personaggi sono alla ricerca di qualcosa di indefinito e quindi preda per corsi motivazionali e suggestioni religiose, staccati dalla trama quasi tutti sono interessanti. Nonostante il creatore della serie, Joe Weisberg, sia un ex agente della CIA le sottostorie propriamente di spionaggio sono una più improbabile dell’altra, al di là dell’assurdità per i Jennings di riuscire a gestire cinque o sei identità contemporaneamente (e dovendo trombare in almeno quattro di queste vite), con distanze geografiche notevoli, nell’era pre-smartphone.

Nella quinta stagione i grandi eventi sono stati appunto una delle nuove identità di Philip ed Elizabeth, pilota e hostess con un figlio vietnamita adottato e a sua volta agente del KGB (ma più duro e puro di loro, alla fine addirittura parla di ‘autocritica’), utile per agganciare Pasha, il figlio di uno scienziato russo espatriato, poi le indagini di Oleg sulla corruzione nel settore alimentare sovietico, le lezioni di autodifesa che Elizabeth dà a Paige, con alcuni momenti molto intensi come il matrimonio ortodosso fra i due protagonisti e le rivelazioni sul passato in un gulag della madre di Oleg. Il contesto storico, siamo ormai arrivati a metà anni Ottanta in pieno reaganismo e alla vigilia della perestrojka di Gorbaciov, e molti personaggi, su tutti Paige, sono sempre molto forti e quindi abbiamo accettato 13 puntate di possesso palla in attesa di una verticalizzazione. Sembra probabile, almeno a noi fan, che tutto sarà drammaturgicamente deciso non dalla voglia dei Jennings di rimanere negli USA, ma da uno scontro finale fra i loro figli. Dal punto di vista ideologico la tesi della serie rimane la stessa, affascinante e fondata: ‘quegli’ USA e URSS erano con la loro guerra fredda base della stabilità mondiale, sia pure sulla pelle soprattutto degli europei dell’Est, ed erano anche entrambi espressioni diverse di qualcosa di genericamente occidentale, tanto è vero che non ci sono buoni e cattivi in base al passaporto.

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