The Long Goodbye Tour, mai dire addio ai Deep Purple

28 Giugno 2017 di Stefano Olivari

Far capire ai fan che potrebbe essere l’ultimo concerto è una trovata di marketing quasi infallibile, in Italia (Vasco Rossi è in questa modalità da almeno un decennio) e nel mondo. Però nel caso dei Deep Purple, con il più vecchio della band che ha 72 anni e il più giovane 63, è probabile che la fine sia davvero arrivata. Non ci sarà un Mark IX, in ogni caso. L’ictus di Ian Paice l’anno scorso, la tendinite-artrite di Steve Morse e il declino di Ian Gillan dicono che al di là della loro voglia e convenienza sarà difficile vederli ancora su un palco dopo questo The Long Goodbye Tour partito il 13 maggio, che in Italia ha toccato Roma, Bologna (Casalecchio di Reno) e Milano (Assago) e che in teoria dovrebbe finire il 23 novembre alla O2 Arena di Londra, dopo le ATP Finals, con gli Europe (!) come supporter.

Non è stata la solita messa cantata, per quanto abbiamo visto-ascoltato commossi a Milano e secondo le testimonianze di amici-fan romani e bolognesi. Le condizioni della voce di Gillan del resto impediscono non solo un’esecuzione accettabile di Child in time ma anche due ore consecutive di hard rock. Per questo i Deep Purple degli ultimi due dischi in studio (Now What?! e Infinite) e degli ultimi concerti sono diventati un gruppo per certi versi simile a quello delle origini (l’era di Rod Evans cantante) e forse il gruppo che l’ora defunto Jon Lord aveva in mente prima di lasciare, nel 2002. Dominatore assoluto della scena è infatti un grandissimo Don Airey, raro caso di tastierista (da non perdere il 15 luglio a Ternate, Varese, in una serata dedicata all’Hammond) che non fa sbuffare i devoti di un gruppo rock: le sue improvvisazioni e variazioni su temi anche ‘locali’ (al Forum si è spinto fino a La donna è mobile e Nessun dorma), alternate all’ortodossia di un sound inconfondibile, ci rimarranno nel cuore almeno quanto la chitarra di Morse, fenomeno ispiratore di discorsi calcistici (“Eh, ma il Blackmore era un’altra cosa…”) secondo noi infondati e l’onestissimo trascinarsi di Roger Glover, Paice e Gillan. Quest’ultimo sublime nel proporsi in pancia e maglietta, citazione involontaria di un certo tipo di inglese che si può trovare con un bicchiere in mano in Costa Brava (ma purtroppo a Londra sempre meno).

I tre concerti italiani hanno avuto una struttura abbastanza simile: inizio con Time for Bedlam e Fireball, chiusura con Black Night, in mezzo rotazione di grandi classici trasversali (Smoke on the water è una tassa fissa), canzoni nuove perché gli ultimi album dei Deep Purple contengono alcuni gioielli, e l’omaggio alle proprie origini con Hush, la canzone scritta da Joe South che fu il primo singolo di un certo successo del gruppo e che è inserita nell’album Shades of Deep Purple. Ovviamente nella nostra testa di fanatici la scaletta avrebbe dovuto essere di 200 canzoni (mancava fra l’altro la nostra preferita in assoluto, Wasted Sunsets) ma in un’ora e quaranta non si poteva fare di più.

Tantissimi i giovani e la cosa ci ha sorpreso fino a un certo punto, perché anche per noi i Deep Purple sono tutt’altro che un ricordo generazionale: li abbiamo scoperti in un negozio di dischi, quando ancora esistevano i negozi di dischi e loro erano considerati degli ex (parliamo del periodo prima del grande ritorno con Perfect Strangers). Poteva insomma essere la musica dei nostri fratelli maggiori, ma maggiori di almeno dieci anni. Non è un caso che gli ultimi Deep Purple abbiano intercettato un pubblico eterogeneo, dove il sessantenne simil-harleysta con chiodo e capello lungo grigio, surgelato dagli anni Settanta, non è più da tempo la figura prevalente. Per non parlare della presenza femminile, che nel corso dei concerti dell’ultimo trentennio abbiamo visto aumentare notevolmente. Essere usciti da certi stereotipi dell’hard rock, che peraltro ai tempi fecero la loro fortuna dopo l’abbandono del prog, li ha consegnati al resto del mondo. E quindi? Non sappiamo se sia stato davvero un goodbye, anche se è probabile. Noi comunque addio non glielo diremo mai.

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