La Serie A ai tempi di Telepiù

13 Giugno 2017 di Indiscreto

Il clamoroso fallimento dell’asta per i diritti televisivi della serie A per triennio 2018-2021 ha varie spiegazioni, non ultima la situazione Mediaset-Vivendi-Telecom ancora da definire, ma fra queste non si può dimenticare la peggiorata qualità del prodotto. Assurdo fare del disfattismo, perché il nostro campionato rimane uno dei pochi a dare una reale visibilità internazionale a chi ne fa parte, ma bisogna anche analizzare i motivi della sua perdita di valore con buona pace del pensiero unico dei presidenti, secondo cui in ogni stagione del triennio in esame i ricavi televisivi totali dovrebbero aumentare da 1,2 a 1,4 miliardi di euro l’anno. Non si sa in base a cosa, visto che in serie A gioca una sola squadra di prima fascia europea, la Juventus, mentre le altre squadre con tifo a diffusione nazionale, Inter e Milan, sono in una fase tristissima della loro storia e nemmeno l’impresa del Crotone ha reso meno imbarazzanti certe partite di medio-bassa classifica. Per almeno tre mesi un campionato per scommettitori, tipo Singapore.

Gli attuali 1.200 milioni all’anno, tutto compreso (anche i diritti in chiaro e gli highlights), sottraendo i 50 milioni derivanti da Coppa Italia e Supercoppa e dividendo per 380 (10 partite per 38 giornate), significano valorizzare a circa 3 milioni la partita televisiva media, senza stare a sottilizzare sui diversi pacchetti. Andiamo adesso al 1993, non la serie con Accorsi ma l’anno di nascita della serie A in pay-tv con il posticipo della domenica sera. In quella stagione 1993-94 Telepiù trasmise 33 posticipi (da non dimenticare che c’era anche un anticipo di B, pur marginale) ruotando le squadre con un notevole equilibrio: fra le più presenti, Juventus, Inter e Milan, e le meno presenti, il Lecce o il Piacenza dell’epoca, la differenza era soltanto di tre partite. Insomma il cosiddetto ‘prodotto serie A’ prima ancora che si parlasse di prodotto serie A. In quel triennio si vide il boom dei diritti in chiaro, che la Fininvest non ancora Mediaset sembrava sul punto di strappare alla Rai: l’emittente di stato nella media tirò fuori 141 miliardi di lire a stagione.

Considerando che Telepiù, che ai tempi era parzialmente controllata da Berlusconi, pagava circa 50 miliardi a stagione e traducendo tutto in euro, significa che 33 partite di A erano valutate circa 90 milioni di euro, cioè più o meno quanto adesso come media partita. Con la significativa differenza che i diritti in chiaro nell’Italia attuale sono a livelli risibili mentre nella ‘nostra’ Italia Novantesimo Minuto era un appuntamento imperdibile. Cosa vogliamo dire? Che ci sembra già notevole vendere la serie A di oggi in pratica allo stesso prezzo di quella di un quarto di secolo fa, quando c’erano Palloni d’Oro in campo (Baggio nella Juventus) e Palloni d’Oro in tribuna (Papin al Milan), la Premier League era nata da poco e l’Italia del calcio faceva tendenza: in quella stagione il Milan vinse la Champions League, l’Inter la Coppa UEFA (Cagliari in semifinale) e il Parma perse la finale di Coppa delle Coppe contro un’Arsenal per undici undicesimi inglese (ci viene da piangere). Pensare che i ricavi televisivi possano crescere all’infinito, a prescindere da ciò che viene mostrato al pubblico, può essere giusto una speranza ma non la base della futura serie A. Da asteriscare anche la minaccia di una tivù di Lega, sbandierata anche da Cairo: se per i club fosse un così grande affare perché allora per 25 anni si sono venduti i diritti pay ad altri? È invece vero che una serie A che si gestisse i propri diritti farebbe fallire il giorno dopo Sky e Mediaset Premium. Il senso della minaccia è tutto qui, per questo è realistico che alla fine si raggiungano le cifre dell’ultimo triennio, perché nessuno può permettersi di fare il fenomeno.

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