Regno a venire, il brutto sport dell’ultimo Ballard

22 Giugno 2017 di Stefano Olivari

J.G. Ballard è stato un grande scrittore, che diversamente da altri grandi non ha scritto per tutta la vita lo stesso romanzo. Le differenze fra L’impero del sole, Crash, Foresta di cristallo e Cocaine Nights sono enormi, anche rispetto alla percentuale di ‘politica’ (non ci viene altro termine) inserita nelle trame di un autore definito in tanti modi (sempre post-qualcosa, per fare i fenomeni) e quindi per sua fortuna indefinibile.

Ma siamo convinti il Ballard che resterà nei decenni sia quello della critica al consumismo, non nei suoi aspetti economici (i prodotti e il denaro per pagarli) o sociali (disuguaglianze), ma puntando sull’insoddisfazione che è alla base del suo successo e delle sue degenerazioni. Un’insoddisfazione che porta a cercare stimoli sempre nuovi e una vita sempre più protetta, non soltanto fisicamente. È questo il tema del suo ultimo romanzo, Regno a venire, di cui abbiamo rimandato la lettura per anni. Essendo Ballard morto nel 2009 ci dispiaceva non avere più niente da leggere di suo e così ci siamo tenuti da parte un libro che per temi e stile può essere inserito nel filone di Cocaine Nights e Super-Cannes. Un atteggiamento infantile, come se fossimo eterni, ma del resto siamo lettori e non critici letterari. Diciamo subito che la grande attesa genera spesso la delusione e così è stato anche in questo caso, il che non toglie che nella sua parte visionaria il libro sia Ballard allo stato puro.

Il protagonista è Richard Pearson, ex pubblicitario di Londra, che va in un sobborgo della città, non lontano da Heathrow, ad indagare sulla morte del padre, ex pilota di aerei che di fatto non ha mai conosciuto. È stato ucciso all’interno di un enorme centro commerciale, il Metro-Centre, pare da un pazzo che odia tutto ciò che è collegabile ai centri commerciali. Tutti i personaggi con i quali Richard entra in contatto per le sue indagini si distinguono per il loro rapporto con il Metro-Centre: c’è chi lo ama e lo ritiene un buonissimo motivo per vivere a Brooklands, c’è chi lo odia perché pensa che abbia distrutto la vecchia rete di convivenza sociale. È un libro del 2006 (titolo originale Kingdom come) e rapportandolo ai dibattiti di oggi potremmo parlare di una spaccatura fra la maggior parte del ‘paese reale’ e la maggior parte della cosiddetta ‘società civile’. La trama è un po’ raffazzonata e il libro, per gli standard di un fuoriclasse, è tirato via, ma le porte della percezione ballardiana sono sempre spalancate.

Se il parallelo fra consumismo e fascismo light, nel senso di pensiero unico, è scontato, non si può dire la stessa cosa della sua visione dello sport. Il Metro-Centre e realtà analoghe sponsorizzano, sostengono e aiutano, decine di club della zona: dal calcio all’hockey ghiaccio, passando per la pallacanestro e altro. Non banalmente per vendere singoli prodotti, quel tipo di pubblicità semmai spetta ai relativi produttori, ma per consolidare una mentalità consumistica che la ‘vecchia’ società inglese, qualsiasi cosa volesse dire, sfruttava commercialmente ma non considerava un valore in sé. L’aggressività del tifoso non è più principalmente rivolta contro le tifoserie rivali, ma su gruppi etnici o politici che con lo sport non c’entrano. Ed è perfettamente funzionale alla compostezza del tifoso stesso nella sua normale vita di lavoratore e consumatore. L’assenza di profondi conflitti politici nella società odierna rende la voglia di guerra e in generale di ‘fisicità’ qualcosa di molto concreto, in una società strutturata come un centro commerciale e dove, altro grande tema ballardiano, non esiste un complotto dei cosiddetti cattivi, ma una resa dei singoli a una vita più rassicurante. Poi la noia, l’insoddisfazione che è parte integrante del nostro stile di vita e un liberalismo che tutti consideriamo ‘giusto’ ma non ci scalda portano a esplosioni di violenza quasi scontate.

Chiaramente il libro si presta ad accuse di classismo: il vecchio mondo è rimpianto soprattutto da chi ci stava bene e in quello attuale ha perso la sua capacità di influenzare le masse. Non risulta che nei decenni passati nella case medio e piccolo borghesi, per non parlare di quelle operaie, ci fossero tutti i giorni discussioni stimolanti mentre adesso non si vede l’ora di fare lo struscio al centro commerciale. Soprattutto la violenza non era nobilitata dall’avere una radice ideologica, al posto della noia e della insoddisfazione attuali. Rimane il fatto che la spersonalizzazione della società, nell’immenso territorio geografico e psicologico che sta intorno alle grandi città, è qualcosa che si può quasi toccare con mano. Tante polemiche, anche recentissime, sul ruolo del centro commerciale nella società, non tengono conto della realtà in cui si vive.

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