Lisbon Lions, i campioni fatti in casa

1 Giugno 2017 di Stefano Olivari

Cinquanta anni fa a Lisbona, il 25 maggio del 1967, il Celtic di Glasgow allenato da Jock Stein realizzò una delle più grandi imprese in una finale di Coppa dei Campioni, battendo 2-1 l’Inter di Herrera che insieme al Real Madrid e al Benfica dominava il calcio europeo di quegli anni. Ricorrenza stracelebrata a Glasgow, ovviamente, il cui peso va però al di là di una squadra che batte la favorita: la base del successo del calcio è che questo avviene molto più che in tutti gli altri sport, al punto che c’è chi non considera il calcio uno sport. Questo non toglie che i ‘Lisbon Lions’ siano ricordati molto più di tante altre squadre vincenti.

Alex Ferguson, uno che un po’ di calcio l’ha visto e che da allenatore ha vinto in Europa sia da favorito con il Manchester United che da outsider con l’Aberdeen (il gol di John Hewitt al Real Madrid è un purissimo ricordo generazionale), considera quella del Celtic 1967 la più grande impresa nella storia del calcio. Forse voleva dire calcio britannico, ma il ‘britannico’ ci è sfuggito… E ha ribadito il concetto durante le recenti celebrazioni, in maniera molto convinta. Con due argomentazioni forti, ascoltate alla BBC. La prima: il calcio britannico di club era già molto forte, ma a livello internazionale aveva una specie di complesso di inferiorità nei confronti dei grandi club italiani e spagnoli. Quella vittoria accese qualcosa in un movimento che non aspettava altro, con i risultati che dal Manchester United 1968 fino alla notte dell’Heysel raccontano di una superiorità indiscussa e di uno spirito molto inglese, al di là delle differenze tattiche fra le varie squadre: il Nottingham Forest di Clough sarebbe potuto essere per compattezza e cinismo una squadra italiana, il Liverpool di Paisley quasi il Barcellona degli ultimi anni, mentre l’Aston Villa dell’icona Peter Withe era la squadra inglese degli stereotipi (anche se in realtà faceva difesa e contropiede).

La seconda considerazione di Ferguson riguarda l’origine di quei giocatori: undici ragazzi scozzesi cresciuti a Glasgow e dintorni (e tutti nel vivaio del Celtic), considerazione notevole anche per i parametri semi-autarchici dell’epoca quando i grandi club collezionavano il meglio almeno della loro nazione. Su quella finale si è scritto tanto, ma può essere interessante ricordare che si giocò senza Suarez da una parte (fu sostituito da Mauro Bicicli) e senza il bomber McBride dall’altra. Tutti italiani (sei i lombardi di formazione, dettaglio poco ricordato e che fa di quella finale una cosa inimmaginabile oggi) gli interisti, tutti scozzesi di Glasgow e paesi limitrofi i giocatori del Celtic: dal capitano Billy McNeill a Tommy Gemmell, da Jimmy Johnstone a Stevie Chalmers, tutti erano arrivati al Celtic da minorenni. Che bei tempi, non è detto che non possano tornare dopo il fallimento della globalizzazione per poveracci, ad uso di agenti e direttori sportivi maneggioni: c’è una leggera differenza fra l’acquisto di Cristiano Ronaldo e quello di Tizzinho e Semproninho…

L’Inter andò in vantaggio con un rigore di Mazzola, ma anche se fu vinta solo negli ultimi minuti la partita fu dominata dal Celtic (la statistica della BBC dice 42 tiri a 3…) contro un’Inter stanchissima e che avrebbe completato l’opera pochi giorni dopo (il primo giugno) a Mantova con la papera di Sarti, in una storia comunque molto diversa e con Suarez in campo ad accrescere i rimpianti per l’esclusione di Lisbona. I miracoli poi tanto miracoli non sono, perché tre anni dopo il nucleo base di quel Celtic arrivò alla finale di San Siro contro il Feyenoord di Happel. Ma la sensazione è che venga ricordato non soltanto per motivi sportivi: se in campo con la maglia bianca e verde ci fossero stati Pelé, Rivera, Eusebio, Moore e Best nessuno li avrebbe amati come sono stati amati Auld e Murdoch. Le lacrime per Totti e Bruno Conti, con tutto il rispetto per Falcão e Batistuta, nascono anche da questo.

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