Troppe zeta nel cognome, vita e morte del critico musicale

16 Febbraio 2017 di Stefano Olivari

Le autobiografie dei giornalisti raramente sono interessanti, perché pensiamo che ‘o si vive o si scrive’ (l’ha comunque detto Pirandello). Quella di Mario Luzzatto Fegiz, ‘Troppe zeta nel cognome‘, da poco uscita per Hoepli, è un’eccezione. L’abbiamo comprata un po’ perché acquistiamo quasi sempre i libri che recensiamo e molto perché il critico musicale, ora pensionato, del Corriere della Sera per quattro decenni ha spesso espresso opinioni forti, come non è proprio nello stile del giornalismo italiano e meno che mai del Corriere. Non è necessario essere d’accordo con lui per apprezzarlo, ma di sicuro non ci annoia visto che si tratta di un uomo che piange quando ascolta Atom Heart Mother e che al suo funerale vorrebbe si suonasse Pensiero.

La parte personale è quasi tutta riservata all’infanzia e adolescenza passate nella Trieste dove il ricordo della criminale occupazione jugoslava era ancora vivissimo, figlio di un padre importante (professore universitario, fondatore della Doxa e tante altre cose) e pessimo studente, prima del trasferimento a Roma e di una collaborazione con Radio Rai, nella storica trasmissione Per Voi Giovani, la cui stella era il Renzo Arbore prima di Alto Gradimento, che lo fece entrare in un mondo della musica che amava ma dove non sarebbe mai potuto entrare come protagonista (ci tiene a far sapere che legge il pentagramma quanto Paul McCartney, Celentano, Mina e Pavarotti, cioè zero). Poi il passaggio al Corriere della Sera e l’occupazione di uno spazio ancora inesplorato perché poco utile (come lo sport) a fare carriera, quello della critica musicale ‘leggera’, con le vette di popolarità raggiunte al Festival di Sanremo, al punto che molte persone sono tuttora convinte che lui sia o sia stato coinvolto nell’organizzazione mentre invece nel corso dei decenni ne è ‘soltanto’ stato il critico più famoso, insieme a Marinella Venegoni, Gino Castaldo, Marco Mangiarotti e pochi altri. Nessuno comunque come Luzzatto Fegiz è riuscito a diventare personaggio trasversale e oggetto lui stesso di critica. Ne parla senza problemi, perché il suo ruolo negli anni passati era dotato di un’arma letale, la mitica ‘recensione che sposta’. Un disco lodato sulle pagine del Corriere della Sera poteva tranquillamente vendere 50.000 copie in più. Non è che una volta fosse tutto meglio, è che non c’erano mp3 e streaming. Ma questo aveva un effetto positivo sul giornalismo musicale, che infatti ebbe il suo boom negli anni Settanta e Ottanta: dovendo spendere ogni volta soldi per ascoltare musica, la gente andava alla ricerca di persone giudicate competenti, a torto o a ragione, e che dessero consigli credibili.

Ma è inutile girarci intorno, ed infatti Luzzatto Fegiz non ci gira intorno: per chi vive di musica la grande popolarità in Italia è legata a Sanremo. Che il giornalista ha spesso criticato come struttura, soprattutto ai tempi di Baudo (con cui ha polemizzato in passato, mentre adesso Baudo gli ha firmato la prefazione e fornito anche l’idea per il titolo), e che ha vissuto nella sue varie fasi. Dalla crisi profonda di fine anni Settanta, quando delle tre serate previste soltanto la terza veniva trasmessa integralmente in diretta, al rilancio per merito fondamentalmente di Baudo, fino al gigantismo dei Novanta che ha portato poi al grande show televisivo dei giorni nostri, con la musica sempre importante ma non più decisiva. Il libro è pieno di aneddoti strepitosi sulle radio (compresa Radio Milano Centrale, l’emittente di sinistra da lui fondata: si tratta dell’antenata di Radio Popolare) e sul giornalismo musicale, di cui ormai si può parlare solo al passato, oltre che sugli stessi cantanti che Luzzatto Fegiz ha frequentato sul serio in privato, da Battisti e De André in giù. Non mancano le situazioni ai confini della realtà che a un giornalista capita di vivere senza poterle raccontare (Elton John che a casa di Gianni Versace suona Candle in the wind su un organetto per bambini davanti a un esterrefatto Robbie Williams, poco tempo prima della morte di Versace) e l’ammissione dei vari trucchi del mestiere un po’ cialtroni, che quando va male portano a infortuni come quello famoso della recensione fantasma dell’esibizione di Elton John a Sanremo. Ma tutte le pagine sono un atto d’amore nei confronti della musica, che non viene mitizzata trovandone chissà quali significati ma che comunque lui non ascolta mai come sottofondo mentre sta scrivendo o facendo altre cose. Un comportamento d’altri tempi, oseremmo dire da vinile, che commuove.

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