Un po’ di gogna per i debitori del Monte dei Paschi

10 Gennaio 2017 di Stefano Olivari

Quanto costerà agli italiani la nazionalizzazione del Monte dei Paschi, mascherata da salvataggio per il bene collettivo? Qui al bar dell’economia ce lo stiamo chiedendo da tempo, mentre un consulente finanziario prova a spacciarci fondi total return (presto un articolo sul tema) e noi insistiamo nei nostri investimenti in vecchi albi a striscia di Tex. Ma dicevamo di MPS: quanto ci costerà?

A prima vista, abbiamo letto su diversi giornali, 6,5 miliardi di euro sui 20 che il decreto natalizio ha riservato al sistema bancario italiano. In realtà molto di più perché non si capisce come al di là degli aiuti di stato possa risollevarsi una banca morta a livello di immagine e reputazione, che nel solo 2016 ha perso 20 miliardi di raccolta (di cui 2 nel post referendum, come spiegato dall’Ansa) e dove soltanto un pazzo potrebbe adesso aprire un conto, al di là del fondo interbancario di garanzia. Per questo il possibilismo di Antonio Patuelli, presidente dell’ABI, per quanto riguarda la pubblicizzazione dei grandi debitori di MPS fa paura prima ancora di avere effetti concreti (se mai ne otterrà, visto che lo stesso Patuelli ha detto che la sua è solo un’opinione). Crediamo più a una fuga di notizie da dentro quel che rimane della banca che a un’operazione di trasparenza, per evidenti motivi.

Dal dopoguerra il Monte dei Paschi è stato di fatto la banca del PCI nella regione in cui il PCI è più forte, con una dirigenza (in cialtronese ‘governance’) formata spesso dalla serie B del partito e dai trombati a livello locale a Siena e dintorni. Il meccanismo era molto semplice: azionista di maggioranza era la Fondazione Monte dei Paschi, a sua volta partecipata e diretta dalle istituzioni locali, di evidente colore politico al di là dei cambi di nome. Poi certo non era l’unica banca controllata da una fondazione, anzi. Però era l’unica di tale cilindrata ad essere così caratterizzata politicamente e geograficamente: fino a pochissimi anni fa nella provincia non c’era niente, letteralmente niente, nemmeno la più insulsa delle mostre o delle sagre di paese, che non avesse avuto una qualche forma di sostegno da parte del Monte. Poi è chiaro che noi ci ricordiamo soltanto di Minucci e Stonerook, ma il consenso sul territorio era reale e capillare in più settori. Non sono certo stati la pallacanestro o la mostra sulle armature della battaglia di Montaperti la causa del crack, beninteso, anzi siamo convinti che se MPS fosse rimasto provinciale invece di giocare con acquisizioni e derivati, adesso saremmo tutti più felici.

Ma non mettiamoci a ripercorrere cinque secoli di storia, bastano gli ultimi 5 mesi. Che saranno ricordati per la discutibile nomina ad amministratore delegato di Marco Morelli (dal 2003 al 2010 alto dirigente dell’istitituto, con varie cariche) ma soprattutto per la misera figura fatta dai fenomeni di JP Morgan e Mediobanca, che con tutte le loro entrature e master non sono riusciti a portare a Siena nemmeno uno che cacciasse soldi privati (in cialtronese ‘anchor investir’) e adesso sembrano fuori gioco. Forse sarebbe bastato coinvolgere Mino Raiola e Jorge Mendes. Tutti poi abbiamo letto della Qatar Investment Authority (in sostanza lo stato del Qatar) e di tante altre ipotesi (altri arabi, poi russi e cinesi, mancava solo Mister Bee), ma soltanto il Qatar in sostanza aveva dato la disponibilità a mettere in gioco almeno un miliardo (un duecentesimo di quanto gli costerà il Mondiale 2022) di euro. Renzi e Padoan ovviamente tifavano per gli investitori privati o comunque non per l’intervento diretto del Tesoro, ma poco hanno potuto contro una situazione strutturalmente drammatica. Fatto sta che a dicembre, dopo il referendum che ha schienato Renzi, anche il Qatar si è  tirato indietro e da lì è nato il piano da 20 miliardi che in teoria riguarda diverse banche ma in pratica è il mezzo per salvare MPS.

Tutto visto con una certa antipatia dalla BCE, che ha messo in dubbio la stessa sopravvivenza di MPS. Alla vigilia di Natale da Francoforte hanno reso noto quello che secondo loro è il fabbisogno patrimoniale della banca: non più 5 miliardi ma 8,8, di cui 6,3 per portare il Cet1 (un indice di patrimonializzazione, molto più forte del più famoso Tier1 che ne costituisce il numeratore) all’8%. In sostanza alla fine di tutto, fra qualche mese, il Tesoro dovrebbe avere quasi il 75% della banca senese. Un altro numero: 15 miliardi, euro più euro meno, sarebbe l’importo delle nuove emissioni MPS garantite dal Tesoro (ancora!). Di più: secondo il FABI, uno dei sindacati dei bancari, quasi l’87% delle sofferenze del sistema bancario riguarda prestiti superiori a 250.000 euro. Quindi responsabilità non del direttore di filiale né tantomeno dell’impiegato, ma di dirigenti a livello centrale. Con percettori di quei soldi che non sono certo la casalinga di Monteriggioni che compra il materasso a rate e nemmeno l’artigiano di Chiusdino.

Ma la questione politica è chiara e va al di là della narrazione che vuole tutto iniziato con l’operazione Antonveneta (una banca pagata peraltro 3,4 miliardi più di quanto fosse stata pagata dal Santander poco tempo prima): la lista finora segreta e secretata, anche tramite mail minacciose ai dipendenti, sarà evidentemente piena di aziende e personaggi di osservanza PD, anche se non soltanto di loro. È significativo che i Cinque Stelle chiedano una commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Montepaschi, mentre PD e Forza Italia siano per una più generica commissione che si occupi del sistema bancario italiano (per buttare tutto in vacca, sottinteso). Conclusione? Non risolverà niente, ma un po’ di gogna mediatica (per citare gli editoriali garantisti dei prossimi giorni, in difesa del padrone ‘democratico’) in questo caso ci vuole.

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