È solo la fine del mondo, tutti i non detti di famiglia

30 Gennaio 2017 di Paolo Morati

I dissidi familiari, le incomprensioni, l’impossibile comunicazione all’interno di un nucleo dove chi è scappato decide di ritornare poco prima di morire, ancora giovane, e chi è rimasto non ha mai perdonato quella fuga e ancor più l’inaspettato rientro. È solo la fine del mondo, di Xavier Dolan, è un gran bel film per le emozioni che trasmette, ancor più seguendolo in lingua francese per la delicata musicalità delle voci fin dall’avvio a bordo di un aereo che ci dice già tutto sul destino del protagonista. Interprete di un narratore affermato, l’attore e modello Gaspard Ullie appare sulla soglia come un fantasma soffuso, e allo stesso modo riscompare. Un personaggio silenzioso il suo Louis, ragazzo assente da dodici anni da casa, rientrato per dire quello che sarà di lì a breve il destino.

Un destino che non sembra minimamente interessare il fratello maggiore, lo scomodo, sarcastico e violento Antoine, un poveraccio con i nervi a mille caratterizzato magistralmente da Vincent Cassel, che te lo fa odiare probabilmente perché da spettatore sai che presto perderà qualcosa e vorresti un abbraccio sincero. Tanto che speri che prima o poi la verità emerga dalla bocca di Louis. E ancora c’è la sofferenza della sorella più giovane, Suzanne (Léa Seydoux), svalvolata e triste, ma felice di un ritorno che si fa necessariamente breve quando vorrebbe recuperare gli anni di privazione e cancellare la sua crescita. Nel mezzo, tra i figli, due altre figure femminili decisive: la bravissima Nathalie Baye, la madre Martine, apparentemente confusa per coprire il suo dramma, ma che nel confronto diretto con Louis dimostra lucidità e consapevolezza dell’esistenza di qualcosa che non è stato detto, e probabilmente non lo sarà mai. E la moglie di Antoine, Catherine (Marion Cotillard) delicata, incerta sottomessa al marito con il quale ha avuto dei figli invisibili nel film, ma che proprio grazie all’incontro con il cognato tira fuori le unghie nonostante le intuibili conseguenze che finiremo per non vedere.

Di derivazione teatrale (e si vede), È solo la fine del mondo è un film amaro, circoscritto, per come è la vita quando ognuno si mette al centro dell’universo familiare ‘dell’io e soltanto io’ senza confrontarsi nei propri problemi, accentrando su di sé l’attenzione di quello che manca e di quello che poteva (o avrebbe potuto) essere. La morte che si avvicina a Louis è solo il pretesto del ricongiungimento degli affetti ma anche della necessità di restare in silenzio anche quando si avrebbe qualcosa da dire, e nel contempo di lasciar parlare le voci di un nastro che non si può poi più riavvolgere, consapevoli che sì la quiete a volte deriva dalla tempesta. Ma se quest’ultima non ci fosse sarebbe anche meglio.

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