Over Land and Sea, fine di una fanzine e di un mondo

4 Gennaio 2017 di Roberto Gotta

(…) Upton Park, come tanti altri quartieri simili nel Regno Unito, è il simbolo del successo o dell’insuccesso del multiculturalismo, a seconda delle idee che si hanno. Le dinamiche del dopoguerra e degli anni Sessanta hanno portato un afflusso di persone da tutti i territori del Commonwealth, gli ex possedimenti della Corona, e l’insediamento ha adattato la zona alle esigenze dei nuovi residenti. Pochissimi dei quali rispondono alla figura classica dell’inglese medio, ovviamente. Macellerie islamiche, parrucchieri e parrucchiere – uno ogni 20 metri, apparentemente – specializzati in stili afro-caraibici, estetiste, rosticcerie con specialità di una manciata di paesi, cartelli in inglese incerto e contraddittorio (quella bottega di barbiere si chiama Top Cut o Top Cutt, visto che è scritto in un modo nell’insegna e un altro sulla vetrina?), dolcetti della nonna che della nonna in realtà non sono, negozi che vendono di tutto, comprese le immancabili schede per telefonare in patria ai parenti, in una confusione cromatica ed esistenziale che ha però un risultato positivo: quello di far accelerare il passo per lasciarsi prima possibile tutto alle spalle, e puntare verso lo stadio, sfiorando con affetto i pochi capisaldi storici rimasti, e che molti di voi conosceranno, compresa una lavasecco, la Blossom and Browne Sycamore, sul cui tetto campeggiava un tempo lo slogan scherzoso e volutamente ambiguo “Don’t kill your wife. Let us to it” (non uccidere tua moglie, lascialo fare a noi), dove il sottinteso del compito da delegare alla stireria era appunto quello del lavare e stirare gli abiti.

Il Ken’s Café sul lato sinistro, la bancarella con i programmi, e lungo il muretto che separa dal parcheggio la figura familiare di Gary Firmager. È un cinquantenne che dal 1989 stampa e distribuisce una fanzine (fan+magazine) chiamata OLAS, Over Land And Sea, dal titolo di un celebre canto dei tifosi inglesi, in questo caso adattato al club (We all follow the West Ham/Over land and sea): disc jockey specializzato in ska e reggae e conduttore radiofonico di professione, abbigliamento con anfibi e spesso pantaloni mimetici, maniche di tatuaggi e la irrefrenabile voglia di propagandare quelli che reputa i valori dell’East End londinese e del West Ham United. Tra questi, NON c’è il passaggio allo Stadio Olimpico: da qui la sua decisione di chiudere con la stagione 2015-16 la pubblicazione della fanzine e di non seguire la squadra nel nuovo stadio. È un personaggio popolare, riconoscibilissimo non solo per l’aspetto con rasatura a zero ma anche per la sua abitudine di piazzarsi su una scaletta a tre gradini, in modo da vedere ed essere visto, e poter poi prontamente dare la copia, e il resto, a chi la acquista. La fanzine stessa è graficamente rimasta agli anni Novanta, ma è fittissima di resoconti, pareri, opinioni di Firmager e di chiunque voglia scrivere e sia fedele a una linea contemporaneamente progressista e nostalgica, a seconda dei temi. Firmager indossa una maglia recente del West Ham e in questo non è che uno delle decine di migliaia: ufficialmente questo è stato designato come Claret&Blue Day ma è come dire a un gruppo di frati domenicani che per festeggiare il loro santo eponimo dovranno indossare un saio bianco. Grazie tante, lo fanno già. È sempre Claret&Blue Day al Boleyn Ground e dintorni, come è Red&White all’Emirates Stadium e via colorando.

I toni abbagliano e ammaliano, ti distraggono continuamente con la loro brillantezza e ti trasportano nel giro di pochi secondi da un’era all’altra: la maglia del 1964 e la FA Cup, quella del 1976 e la finale (persa) di Coppa delle Coppe, quella bianca con contorni dorati e la finale di League Cup del 1981, e ogni volta è uno strattone nella memoria, comprese le tante con la scritta DI CANIO sulla schiena, che ti ricordano l’immensa popolarità di una persona che hai imparato a conoscere, e stimare, dopo averla incontrata nell’ambiente di lavoro. La visita al Newham Bookshop, angolo con Green Street lungo la Barking Road, produce un curioso effetto immediato: davanti al negozio sta infatti passando Brian Williams, giornalista, autore di ‘Nearly reach the sky’, cioé di un libro sul West Ham, con vicende intrecciate alle proprie, di cui curiosamente ho nella tracolla una copia. Difficile non riconoscerlo, dato che indossa la meravigliosa maglia della finale di FA Cup del 1980 a cui ho già fatto cenno e che veste anche nella quarta di copertina del volume. Immediata richiesta di autografo e dedica, con precisazione affannosa (“Sono un giornalista pure io, di solito non faccio queste cose”), poi un saluto con il passo accelerato, perché ci sono da sbrigare ancora parecchie incombenze, o meglio desideri.

Il primo è quello di un banalissimo panino: come detto nella introduzione, ho cercato di mangiare solo e sempre in posti legati al club, e la serie si inaugura con il chiosco all’angolo tra Priory Road, la strada dietro la East Stand, e la Castle Street. ‘West Ham’s favourite hamburger’, c’è scritto sul telone claret&blue, e le selezioni di panini hanno nomi evocativi: Bonzo (in onore di Billy Bonds), Striker, Mad Dog (Martin Allen), Terminator (Julian Dicks), Penalty, Hatrick (manca una t, d’accordo) e Stevie Bacon, che sembra una presa in giro ma non la è: Stevie Bacon è infatti un personaggio popolarissimo al Boleyn, fotografo della squadra per oltre 30 anni ma ora, a 64 di età, fermato da un diabete che gli è anche costato l’amputazione della gamba sinistra sotto il ginocchio, nell’autunno del 2015. Ha scritto un libro di ricordi, ‘There’s only one Stevie Bacon’, che replica nel titolo il canto che in trasferta i tifosi gli hanno dedicato, ed è in poche parole il classico personaggio a cui tutti vogliono bene, anche perché un po’ – come diremmo noi – sfigatello: sovrappeso in maniera grave, con l’aria di chi davvero nella vita si è dedicato solo al club, nel 2014 era stato licenziato dal Newham Recorder, il quotidiano locale, dopo 42 anni di servizio e aveva iniziato lì la sua parabola discendente sul piano della salute.

L’ho conosciuto nel 2007, quando ho… giocato a calcio a sette al Boleyn facendo parte della squadra dei Boys of ’86, il gruppo di giocatori di quel West Ham che sfiorò il titolo arrivando poi terzo. Era una giornata aperta a tutti, in cui si poteva iscrivere la propria squadra di amici e colleghi a questo torneo ed era garantita, nell’arco della giornata, una partita contro i Boys. Io però non avendo una squadra (si trovano nel giro di due settimane sei altri pazzi disposti a stare via una notte?) mi ero iscritto come singolo: l’organizzatore mi aveva detto che mi avrebbe inserito in una delle squadre, ma una volta al Boleyn mi sparò un “Fai così, vai con i Boys” che mi lasciò stecchito. Alvin Martin, una delle colonne di quel gruppo, mi consegnò la maglia (numero 5) e quando Tony Cottee mi disse “In avanti giochi tu, io alle tue spalle” avrei potuto anche morire e non avrei sofferto, anzi sarei stato felice. In realtà per i primi 20′ ebbi le ginocchia di marmellata dall’emozione e non combinai nulla, mentre in quelli successivi, una volta ripreso dall’ansia, andò… anche peggio, ma ebbi modo di sentirmi parte di un insieme storico e di mettere assieme ricordi pazzeschi. (…)

(Estratto del primo capitolo del libro Addio West Ham – Il nostro ultimo anno ad Upton Park, di Roberto Gotta (Indiscreto editore) è in vendita in versione cartacea (332 pagine) presso la Libreria Internazionale Hoepli, sia in negozio sia sul sito web, la Libreria dello Sport e tante altre librerie italiane (nel caso non ci fosse, qualunque libraio lo può recuperare in due giorni), ad un prezzo che dipende da scelte del venditore (da un minimo di 14 a un massimo di 18,90 euro). In versione eBook è disponibile per Kindle di Amazon, per tutto il mondo Apple (iPad, iPhone, Mac) su iTunes , per Kobo di Mondadori per tutti gli altri eReader in formato ePub sulla piattaforma BookRepublic, al prezzo di 9,99 euro. Distributore in esclusiva, di questo e degli altri libri di Indiscreto, è Distribook srl

Indice: Un anno surreale e magnifico; 1. C’è soltanto uno Stevie Bacon (Leicester City); 2.Lo stadio all’improvviso (Bournemouth); 3. The next station is Upton Park (Norwich City); 4. Cockney boys (Chelsea); 5. L’esperto di Piccadilly Line (Everton); 6. East End boys, Essex girls (West Bromwich Albion); 7. Il cancello del Memorial Ground (Stoke City); 8. Yes! (Southampton); 9. God save the Queens (Liverpool); 10. La perfida Albion (Manchester City); 11. L’inverno del nostro scontento (Aston Villa); 12. Happy Hammer (Sunderland); 13.Profumo d’Inghilterra (Tottenham Hotspur); 14. Sognando Brooking (Crystal Palace); 15. Cristianesimo muscolare (Arsenal); 16. Spotted dog (Watford); 17. EastEnders (Swansea City); 18. Bubbles (Manchester United); Addio West Ham.

                                                                   RECENSIONI

LA GAZZETTA DELLO SPORT – L’East End londinese, l’Aunt Sally’s Caffè e la sua monumentale colazione, il venditore di programmi, il Nathan’s e la sua ‘pie’ all’anguilla, il Boleyn Pub, il Queen’s market, gli odori di fritto e poi, tra le case, piano piano, i primi squarci dello stadio, il Boleyn Ground. In ‘Addio West Ham’ (ed. Indiscreto, pag. 324, euro 18,90) Roberto Gotta ci accompagna per una stagione intera a Upton Park, lo stadio degli Hammers che dopo 112 anni di onorato servizio ha chiuso i battenti. Giornalista di Fox Sports, già autore di un libro di culto per gli amanti del calcio inglese, ‘Le reti di Wembley’, purtroppo mai più ristampato, Gotta ha pensato bene di abbonarsi al West Ham per l’ultima stagione nel mitico impianto. Ha visto tutte le partite in casa della squadra, tranne quella col Newcastle, e ce le ha raccontate in un diario che è un tuffo nelle tradizioni e nella storia del calcio d’Oltremanica. Ma non di solo calcio si parla, perché il libro è un viaggio nel quartiere del club, ogni partita un itinerario diverso, ogni tappa un percorso a caccia dei luoghi della memoria, girovagando in una Londra che meno turistica non si può. E ogni volta inseguendo il fiume di maglie ‘claret&blue’, quell’accoppiata unica di colori. marchio di fabbrica della squadra che fu di Bobby Moore. Qui a parlare non sono le star, ma il 65enne vicino di posto dell’autore con la faccia di uno che “deve averne viste parecchie”, il gestore del pub e lo storico venditore di una fanzine che chiuderà con la morte di Upton Park. Domina su tutto una quasi commovente nostalgia per il calcio inglese che fu. (Articolo di Paolo Avanti, pubblicato sulla Gazzetta dello Sport di martedì 20 dicembre 2016)

IL GIORNALE«Chissà cosa ci troverai di bello in tutto questo degrado…». Se una decina di anni fa, quando anch’io mi ero messo in testa di girare e fotografare i dintorni degli stadi di Londra, avessi avuto una copia di Addio West Ham, spiegare a mia madre la mia passione per le scalcinate e dickensiane periferie calcistiche britanniche sarebbe stato più facile. Perché nel libro di Roberto Gotta si trova la risposta alla domanda che tutti hanno fatto almeno una volta ai «malati» di Premier League: perché? Perché tifare club che non vincono mai, con tifosi sudati e tatuati che biascicano in accento cockney, trovandosi a pranzare in tavole calde bisunte? Capisco tifare Chelsea e Arsenal, Harrod’s prima della partita e bel gioco. Ma come si fa a entusiasmarsi per Antonio e Mark Noble? Semplice, basta lasciarsi trasportare dall’atmosfera. Gotta studia e ama il calcio inglese dagli anni ’70. Nel 2015-16 si è messo in testa di raccontare l’ultima stagione del West Ham, squadra «operaia» dell’East end londinese, nel vecchio stadio, il Boleyn Ground di Upton Park. Si è abbonato e – tra aerei, treni, metro e perfino traghetti e funivie (!) – ha seguito 18 partite su 19 degli Hammers per raccontare l’ultimo capitolo di una storia lunga 2.164 match e 112 anni. Ne è uscito un documentario sull’«animale-tifoso» e una dichiarazione d’amore per un calcio legato a doppio filo con la comunità. Ma anche un trattato di storia di Londra, dove la geografia del sobborgo di Newham si mischia all’architettura moderna di Canary Wharf, dove l’epopea dei cantieri sul Tamigi fa fiorire l’epopea del calcio claret and blue. Il resto è un racconto di viaggio tra gli angoli più quotidiani intorno allo stadio, sostituito da settembre dall’asettico Queen Elizabeth Olympic Stadium. Le pies di Nathan’s, le pinte di ale del Queens o della Boleyn Tavern (anche se l’autore è colpevolmente astemio e si perde parte del divertimento del pre-partita), il fish and chips, le costine. Il colesterolo come ingrediente del tifo, la fanzine venduta davanti alla chiesa di Our Lady of Compassion da un ex deejay in anfibi e coppola, il mercatino con il pescivendolo pakistano finito pure a X-Factor: il piccolo mondo devastato del West Ham era questo. Una zona popolare diventata regno di fast food etnici, dove il decoro e l’estetica non sono mai interessati granché «e dove l’unica cosa a spiccare è la squadra, che infatti se ne va». Perché in fondo ai tantissimi tifosi degli Hammers che canticchiano l’inno I’m forever blowing bubbles le radici interessano più dei gol di Payet. E la nostalgia per quello stadio abbandonato se la porteranno addosso, ultimo reperto di un calcio che muore da decenni ma ancora si ostina a non accorgersene. (Articolo di Marco Zucchetti, pubblicato su ‘Il Giornale’ di mercoledì 28 dicembre 2016)

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