Eccomi, noi e il nostro Israele

2 Gennaio 2017 di Stefano Olivari

Nella classifiche di fine 2016 molti giornali hanno sostenuto che ‘Eccomi’ sia stato il libro del 2016, ma in nessun campo come nella letteratura queste graduatorie sono forzate. Impossibile per un critico di professione leggere anche soltanto i libri ‘di cui si parla’, figurarsi per lettori senza scrupoli (un libro brutto va abbandonato dopo al massimo dieci pagine) come noi. Però ‘Eccomi’ l’abbiamo letto con passione e attenzione, trovando un’infinità di spunti pur senza gridare al capolavoro. Diciamolo subito, così ci togliamo il pensiero: Jonathan Safran Foer potrebbe diventare uno dei tanti sopravvalutati di Indiscreto, nonostante gli straordinari libri precedenti e il nostro pregiudizio positivo sull’autore di ‘Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?’. Del resto uno che insegna scrittura creativa non può strutturalmente essere un genio, ma al massimo un grande professionista (non è un insulto, il nostro scrittore vivente preferito è Robert Harris) e un autore di successo internazionale, quando la maggioranza di chi scrive libri esulta alla centesima copia venduta. Ve li vedete Hemingway o Salinger a insegnare scrittura creativa?

Detto questo, il libro in Italia edito da Guanda ha così tanto materiale di discussione da avere una forza che prescinde dalla scrittura. La struttura è semplice: Jakob è uno sceneggiatore televisivo, con potenzialità inespresse come scrittore puro, in crisi con la moglie Julia e alle prese con tre figli che si avvicinano all’adolescenza. Vivono a Washington, in una bella casa unifamiliare che possiamo immaginare, insieme a un cane molto malato di nome Argo. Ebreo non osservante e nemmeno credente, Jakob ha sempre vissuto questa appartenenza come un fatto culturale, privo di profondità storica, nonostante il nonno sia uno dei pochi scampati a campi di concentramento nazisti ed il padre sia fissato con il fatto che con gli ebrei il vento stia di nuovo cambiando (verso il peggio). La crisi con Julia, figlia quasi unicamente del tempo che passa e della quotidianità, esplode quando lei scopre suoi sms ad una collega e diventa insostenibile quando da Israele arriva il cugino di Jacob, per il Bar Mitzvah del maggiore dei tre ragazzi. Proprio in quei giorni, collocati in un tempo immaginario ma comunque vicini ai nostri, Israele viene semidistrutto da un terremoto devastante ed il paese in ginocchio viene subito attaccato da molti dei suoi nemici nella regione. A questo punto ogni ebreo del mondo si deve almeno porre la domanda: Israele è uno stato come gli altri o un luogo dell’anima, che va difeso fisicamente da parte di  ogni ebreo del mondo senza stare a pensare alla propria convenienza personale?

I temi buttati in campo sono tantissimi e quello evocato dal titolo (‘Eccomi’ è la risposta di Abramo a Dio, quando gli viene chiesto il sacrificio di Isacco) non è nemmeno il più importante. Lo stesso Safran Foer in molte interviste ha spiegato che l’ambizione del libro era massima, perché voleva toccare ogni tema fra quelli che sente importanti: l’umanità modificata dalla tecnologia, l’impossibilità dell’amore assoluto, gli animali, il coraggio, il tradimento, la menzogna, il proprio posto nel mondo. Jacob ha più ruoli, come tutti gli esseri umani, a seconda delle persone con cui si rapporta e dei propri obbiettivi. Ruoli e obbiettivi spesso contrastanti, anche soltanto perché si contendono tempo, attenzione, energia, vita. La chiave di ‘Eccomi’ è secondo noi proprio questa: non si può essere perfettamente leali nei confronti di tutti, nemmeno di se stessi. Super-iper-mega metafora di questa condizione umana è il modo in cui l’ebreo si rapporta a Israele: è la casa da difendere da chi la vuole distruggere, arruolandosi e sporcandosi le mani, o un’idea da portare avanti anche in maniera per così dire light, senza rinunciare alla propria vita americana, francese, italiana, eccetera? L’eterno contrasto fra ‘meglio possibile’ e bene, finitezza e infinito, relativo e assoluto, eccetera. Che Safran Foer riempie di considerazioni spesso geniali, rivestendo grazie al discorso diretto tutte le parti in commedia. A volte c’è l’irresistibile leggerezza anti-ebraica di tanti intellettuali ebrei, ma spesso la mano gli scappa, anche quantitativamente: in certi punti non si capisce chi stia parlando con chi, i riferimenti alla religione e ancora di più alla tradizione ebraica sono a volte incomprensibili, i bambini sono poi di una intelligenza imbarazzante e parlando come i bambini dei libri o di un film della Archibugi. Ma staccarsi da queste (tante, 670) pagine è impossibile. Perché ognuno ha il suo Israele, anche se non tutti siamo disposti a combattere per difenderlo.

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