Baustelle, tra amore e violenza

14 Gennaio 2017 di Paolo Morati

Leggero, profondo, antico e attuale. Con questi quattro aggettivi possiamo riassumere il nuovo disco dei Baustelle, L’amore e la violenza. Una delle poche band italiane che in quindici anni di attività discografica ha saputo ritagliarsi una finestra di distinzione, attingendo con intelligenza alla lezione dei ‘padri’ della leggera italiana su più decenni, torna e mette insieme testi decadenti e pittorici su un sound che guarda indietro per portare avanti, tra un insieme di omaggi e innovazioni. E lo fa senza gridare, con le voci e le penne di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi, e i suoni di Claudio Brasini. Niente a che vedere con le modà che, come abbiamo più volte detto, ci circondano pensando che emozionare voglia dire ululare e strappare lacrime (oltre che rompere i timpani).

Dunque un disco che, in tempi duri e bellici, non fa nulla per strizzare l’occhio a ragazzine in crisi d’amore o ai non più bambini a parole, che rintocca tra pop e new wave, e continentali richiami. L’apertura, strumentale, Love è appunto una dichiarazione di intenti chiara, che si interrompe di colpo, cruda, e fa partire Il vangelo di Giovanni, “Io non ho più voglia di ascoltare, questa musica leggera, nello sparire, nel mistero del colore delle cose”, che mette subito in chiaro il tono di un’opera narratrice del tempo moderno con metro di misura il passato. La successiva Amanda Lear è il pezzo che entra subito in testa, non a caso primo estratto: “Amanda Lear, soltanto per un LP, il lato A, il lato B che niente dura per sempre, figurati io e te”, storia di un rapporto e di un lascito lasciato. Canzone d’amore finito? Cattiva? Certo, infondendo un retrogusto malinconico che si rafforza in Betty (“Betty è bravissima a giocare con l’amore e la violenza si fa prendere e lasciare”), storia di ragazza che “si fa vendere e comprare”, con sogni di morte, senza dolore.

I Baustelle sorprendono e osservano, fanno proprio l’Eurofestival, nella canzone più up tempo dell’insieme, ma non si parla certo solo di palcoscenici (“Epicurei, etero e gay, giovani rapper, occultisti e dj nella mia stanza, ragazza mia non c’è speranza”), ma anche di confini e guerra che avanza. Quella che nessuno dice ma tutti aspettano. Basso e batteria invece rimbomba acquistando l’inconfondibile intro di Sandokan, per poi diventare “eri tu il cadavere portato a riva dalle onde, una voce sull’iPhone che parla a caso e non risponde”). Ha un che di memorabile La musica sinfonica, dove la voce della Bastreghi strega i timpani vintage (“Essere felici non è facile, è folle ma impossibile, è musica sinfonica, in discoteca”), e si fa fischiettare. Non si ferma ancora la caduta di cenere malinconica, e i presagi di guerra nemmeno troppo impliciti, in Lepidoptera (“Io ti giuro che saprò cambiare, io non ho provato mai così tanta, voglia di vivere e fame e sete”).

Quello che può essere considerato l’inno del disco è però La vita (“Lo so la vita è tragica, però è bellissima, essendo inutile, è solo immagine, un soprammobile… però è fantastica”), riscatto emozionante, che innesta la positività nell’apparente e reale fatica quotidiana. Breve intermezzo 70s con Continental Stomp, per far partire L’era dell’acquario dove torna l’attualità dell’epoca della paura, dell’abitudine al dolore, invocando “Torneremo a fare l’amore, vedrai, a guardarci dritto negli occhi, ci si abitua a tutto, al dolore, alle stagioni, alla storia, al calendario”.

Chiude la delicata Ragazzina, la composizione più ‘cantautorale’ del lotto quasi a voler far pace con chi non accetta che ritmi apparentemente frivoli possano nascondere messaggi profondi. Ma questi sono proprio i Baustelle, e in fondo la loro grandezza e tratto distintivo, tra cambiamenti e ritorni: “Ragazzina che cammini con i mostri, con tuo padre che non riesce più a capire, se il problema più importante del reame sia vivere o morire”. Bella domanda, senza aspettarsi a tutti i costi il lieto fine.

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