Trump e lo sport politicamente corretto

9 Novembre 2016 di Stefano Olivari

Quasi nessuno in Italia aveva previsto la vittoria di Donald Trump nelle presidenziali americane, vista l’unanimità delle previsioni, per non dire del tifo, dei media americani, anche di quelli di orientamento repubblicano (al di là del fatto che Trump avesse contro anche quello che teoricamente sarebbe il suo partito), dai quali si copia di solito senza citare la fonte. Ma dal nostro punto di vista è interessante soprattutto analizzare i comportamenti del mondo dello sport americano in questa campagna elettorale, sia a livello politico (le varie NBA, NFL, eccetera) che individuale, in un paese dove il successo è un merito e non una colpa da espiare, dove quindi in proporzione avere l’appoggio di LeBron James conta più che avere da noi quello di Higuain.

A livello politico le grandi leghe non si sono ovviamente schierate: essendo imprese commerciali, la loro stella polare è quella di non inimicarsi alcun potenziale cliente (ogni dirigente ha nel cuore una delle più famose frasi di Michael Jordan, “Anche i repubblicani comprano scarpe”) e di limitare le proprie iniziative extrasportive a quella beneficenza per così dire condivisa che nessuno può discutere a meno di essere un mostro. Questa forma mentale ‘inclusiva’ porta più vicini all’area liberal, quindi al Partito Democratico, ma da questo alle dichiarazioni di voto passa un oceano. E anche lo stesso caso Kaepernick, potenzialmente devastante, è stato finora metabolizzato dal sistema mediatico-sportivo senza scontri frontali.

Diverso invece il discorso per i protagonisti dello spettacolo, che quasi mai nella storia recente si sono schierati per il candidato repubblicano e meno che mai lo hanno fatto per Trump, caricaturizzato dai grandi media e quindi automaticamente visto come ‘non giusto’ anche da chi non ha opinioni politiche forti (come in genere i campioni dello sport, concentrati soltanto su se stessi). Fra gli sportivi o ex sportivi di grande popolarità soltanto in pochi hanno espresso pubblico apprezzamento per Trump ed elencarli è quindi abbastanza facile. Mike Tyson, da Trump ben conosciuto in quanto organizzatore pugilistico, e curiosamente anche Don King che con Trump e lo stesso Tyson ha avuto rapporti altalenanti, John Daly e Jack Nicklaus (golf), Mike Ditka e Terrell Owens (football), Bobby Knight, Latrell Sprewell e Dennis Rodman (pallacanestro), Johnny Damon e Clay Buchholz (baseball), per citare personaggi conosciuti anche in Europa dal generico appassionato di sport. C’è poi una significativa minoranza, per non dire maggioranza, silenziosa, soprattutto nella NFL (molti fra i ‘trumpisti’ inseriscono Tom Brady, anche se il quarterback dei Patriots ha evitato endorsement), nella MLB e nella NHL, che non ha ritenuto conveniente esprimersi.

Da inquadrare il discorso NBA, dove la composizione razziale (68% di neri, peraltro non molto diversa da quella NFL) spiega soltanto in parte il diffuso sostegno a Hillary Clinton e in generale ai candidati democratici: l’era Obama (che è per metà bianco, piccolo particolare) ha coinvolto emotivamente molte celebrity della pallacanestro, a partire da LeBron James. Il fuoriclasse dei Cavs è stato fra l’altro uno dei pochi a scendere in campo a viso aperto, salendo addirittura sul palco insieme alla Clinton in campagna elettorale (ma l’Ohio, stato decisivo, è andato lo stesso a Trump). Significativo che i pochi del mondo cestistico a dichiararsi pro Trump siano personaggi fuori dagli schemi, più che repubblicani osservanti. Conclusione? Trump o non Trump, il politicamente corretto conviene sempre: ti fa perdere meno clienti rispetto a posizioni più forti (di destra ma anche di sinistra) e puoi persino passare per intellettuale anche se l’unico libro letto è la tua autobiografia.

(Pubblicato sul Guerin Sportivo)

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