American Pastoral, orrore e uscita dall’orrore

24 Novembre 2016 di Stefano Olivari

Ci sono Di qua o di là che sono così telefonati che ci vergogniamo anche al solo pensarli. Però Ewan McGregor, attento lurker del Muro del Calcio (da ex Trainspotting vorrebbe contribuire al cazzeggio colto parlando del gol di Gemmill all’Olanda 1978), sembra abbia esordito alla regia con American Pastoral soltanto per vedere pubblicato un sondaggio ‘Libro o film?’. Ecco, nonostante molte critiche negative secondo noi questo è uno dei pochi casi in cui il film è all’altezza del libro pur dovendone per forza di cose e di Philip Roth, sempre difficilissimo da rendere per immagini e per ‘trame’ anche se lui per primo ha approvato il lavoro di McGregor, tagliare molte parti e scalpellarne altre (la scena del bacio alla figlia, decisiva per comprendere il resto, non è proprio come nel film).

In American Pastoral, che abbiamo visto qualche settimana fa, la forza devastante del protagonista, Seymour Levov ‘Lo Svedese’, colpisce anche chi ha letto il libro ed è andato al cinema già mal disposto e con in canna la frase da tavolo con la sangria. Tutto il sogno, non necessariamente americano, sintetizzato in un uomo che vive la sua vita adeguandosi a un modello e diventando lui stesso un modello. Tutto il sogno ma anche la sua futilità, in un ragazzo-atleta ebreo del New Jersey, idolatrato negli anni Quaranta e che diventa ancora più bravo come imprenditore, marito, figlio, padre, cittadino progressista. Vede che intorno a lui tutto si disgrega, dalla vita della figlia terrorista all’America stessa, ma non capisce perché questo accada. E del resto nessuno dei disgregatori, dalla moglie (Jennifer Connelly) ai conoscenti, è in grado di spiegarlo o spiegarglielo. L’uscita dall’orrore, nel senso che gli dava il colonnello Kurtz (nella versione di Coppola, non del pur grande Joe Denti), è un orrore essa stessa.

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