Corrado Rustici, alla ricerca della Musica

21 Ottobre 2016 di Paolo Morati

Corrado Rustici

Sono rari i casi di musicisti italiani moderni capaci di trasferire armi e bagagli, e in questo caso strumenti, negli Stati Uniti per essere accettati là dove si creano le grandi produzioni. Uno di questi è Corrado Rustici, chitarrista e produttore napoletano con una lunga storia alle spalle tra Italia, Inghilterra e USA. Tante le sue collaborazioni: Aretha Franklin, Whitney Houston, alcuni storici album di Zucchero capaci di cambiare drasticamente il sound italiano, fino ad Elisa, Francesco De Gregori e Ligabue. Ma anche diversi i suoi lavori da solista dove la ricerca ha sempre fatto capolino. Lo abbiamo intervistato in occasione della pubblicazione del suo nuovo album intitolato Aham, per parlare di lui e della sua idea di musica tra passato, presente e futuro.

Aham, in sanscrito, significa Io sono. Chi è, in tal senso, Corrado Rustici?
“Io Sono” non si riferisce a Corrado Rustici, bensì a ciò che, senza limiti di tempo, “È” a priori del concetto “Corrado Rustici” e/o di tutto ciò che la mia mente può immaginare. “Io Sono” è l’unica realtà inconfutabile ed indiscutibile, perché sappiamo di essere, oltre ogni dubbio, al di là di qualunque verità concepita dalla mente. È il contesto nel quale tutte le innumerevoli storie, che identifichiamo come nostra vita, hanno la possibilità di esistere.

Parliamo del concetto di musica Transmoderna. Che cosa intendi con questo termine e come si compone e realizza poi concretamente in un’opera?

La musica transmoderna rappresenta – per me – un approccio artistico che integra e trascende i “meme” musicali a nostra disposizione. Contrariamente a quello che questa era postmoderna voglia farci credere, il “sentito dire” sonoro ed il “copia ed incolla” musicale (identificabili con la maggior parte delle due misure, contenenti le stesse progressioni armoniche, che caratterizzano la musica popolare) non sono una base solida sulla quale costruire una realtà artistica rilevante. Il transmoderno richiede, al musicista di oggi e del futuro, l’approfondimento e la ricerca dei principi essenziali che animano lo spirito umano e dal quale sorgono idee, immaginazione e creatività. In questa ricerca, non necessariamente limitata solo alle arti, risiede la speranza e la visione di un’umanità tollerante, illimitatamente visionaria e libera dalla paura, che abbiamo, della vita stessa.

Come sei arrivato a questo tipo di pensiero musicale e quali sono gli elementi distintivi di Aham rispetto ad altri tuoi lavori del passato, nonché il suo filo conduttore?
La musica è – dopo il silenzio – il mezzo più efficace per esprimere l’inesprimibile. È la manifestazione di ciò che alberga nel cuore e nella mente di un artista. Nel mio caso, diversi anni fa, cominciai a chiedermi “Chi sono Io?”, “Da dove vengo?”, “Cosa nasce e cosa muore?”… Queste domande mi portarono ad indagare su tutto ciò che credevo vero e che usavo per dare un senso alla storia della mia vita. La ricerca di una risposta a queste domande mi ha portato allo smantellamento naturale di concetti che non mi erano più utili e che, anzi, limitavano la mia espressione umana. Musicalmente questa ricerca personale, è stata una delle ragioni per le quali ho deciso di esplorare cos’altro avrei potuto fare con la chitarra. Come potevo creare un contesto musicale e sonoro, che potesse “suonare” in modo diverso da altri.

Ascoltandolo abbiamo provato un’alternanza di emozioni. Con la conclusiva suite che ti lascia dentro sentimenti contrastanti, una prima più indefinita, una seconda commovente… come sono nate le due parti?
Nel mio lavoro di produttore, ho sviluppato, negli anni, una tecnica che chiamo “Push and Pull”. Senza entrare in particolari tecnici, si basa sulla creazione di dinamiche, sonore e musicali, che servono a sottolineare i vari momenti/transizioni esistenti in un brano. Nel caso di Aham, la prima parte è necessaria per creare, nell’ascoltatore, la tensione che viene poi rilasciata emotivamente dalla linea melodica e dalla progressione armonica della seconda parte.

Parlaci della chitarra: cosa significa suonarla, come ti sei avvicinato allo strumento da ragazzo e quali sono state le tappe (e gli eventuali modelli se ne hai avuti) che ti hanno poi portato a renderlo sempre più un elemento fondamentale della tua vita?
Da bambino, durante una vacanza estiva sulla costiera Amalfitana, mio fratello Danilo ed io scoprimmo in un armadio una vecchia chitarra… Quel momento diventò la genesi della mia storia di musicista. All’inizio fui influenzato dal percorso musicale di mio fratello (uno dei fondatori del gruppo progressivo Osanna), poi cominciai a scoprire artisti come Phil Keaggy, Ralph Towner, John Mc Laughlin, Eberhard Weber, attraverso i quali cominciai a scoprire idiomi musicalmente più verticali di quelli che avevo già metabolizzato. La chitarra è rimasto il mio “attrezzo” preferito, per esprimermi e – dopo l’esperienza degli ultimi sei anni – so di non sapere quello che la chitarra può ancora fare.

Che rapporto hai con le tue mani, che guidate dalla mente e dall’istinto sono poi il mezzo che ti permette di produrre effettivamente i suoni?
Avverto il mio corpo come lo strumento principale attraverso il quale l’energia che mi anima, sceglie di manifestarsi. Cerco di rispettarlo e di prendermi cura di esso, come meglio posso.

Tu sei napoletano e non sei l’unico musicista in famiglia. Quanto i suoni della tua terra hanno contribuito al vivere la tua essenza di artista e come sei poi arrivato invece a trasferirti per poi stabilirti in California? Puoi quindi riassumerci brevemente le tappe principali del tuo percorso, da band come i Cervello e i Nova, al ruolo di vero e proprio ’emigrante’?
Nel 1973-74 divenne molto difficile suonare in Italia, causa il clima politico che pervadeva il paese, ed il confronto con i “mostri sacri” che venivano in tour era pressoché inesistente. Sentivo molto il bisogno di imparare e di interagire con questi “sciamani” musicali, che potevo osservare soltanto da lontano. Per cui, insieme con mio fratello Danilo, Elio D’Anna, Luciano Milanese e Franco Loprevite, formammo i Nova e decidemmo di trasferirci a Londra. Dopo mesi molto difficili avemmo la fortuna di firmare un contratto discografico con l’Arista che dette la possibilità al gruppo di diventare una realtà internazionale ed io ebbi la possibilità di conoscere e suonare con musicisti come Narada Michael Walden, Jeff Beck, Phil Collins, John Mc Laughlin e tanti altri personaggi illustri della scena musicale internazionale. Con l’album “Vimana” entrammo in classifica negli USA, per cui il trasferimento da Londra a lì fu un passo naturale. Dopo avere lasciato la band, nel 1978, decisi di trasferirmi a San Francisco e di misurarmi con i grandi musicisti/turnisti americani. A San Francisco, con Narada Michael Walden, formammo un gruppo che dette vita a tantissime hit mondiali e che dette a me la possibilità di imparare, studiare e perfezionare l’arte della produzione. Il tutto creò la base che mi servì poi per portare questo sound ed il know-how internazionale che avevo acquisito, nel panorama della musica italiana.

Quali sono invece gli incontri che ritieni siano stati fondamentali nel corso di questo cammino, come venivi considerato inizialmente dai colleghi stranieri e a che punto ritieni oggi di essere arrivato?
All’inizio, sia a Londra che negli Stati Uniti, non fu facile. L’Italia era un paese, considerato un po’ come parte di un “Terzo mondo musicale” (tristemente, forse, lo è ancora). A parte rarissimi casi (come per esempio la PFM), non c’era un precedente che potesse dare a un giovane chitarrista come me la necessaria credibilità iniziale, per potersi inserire in un contesto internazionale. Fondamentale fu l’incontro con Narada Michael Walden, il quale dette a questo giovane e inesperto musicista la possibilità di sentirsi alla pari con altri. Fondamentali anche le esperienze con Aretha Franklin, Herbie Hancock, George Benson, che furono la mia università e tesi musicali. Oggi, credo di essere finalmente pronto per imparare a fare “Musica”.

Alla luce della tua esperienza quali credi siano le differenze che nel corso della tua carriera hai potuto notare tra il fare musica in Italia e in America e quanto ti hanno arricchito l’uno e l’altro mondo?

La grande differenza, che notai 40 anni fa, era l’assenza di un contesto professionale in Italia. Il lavoro di musicista, fuori dal modello Conservatorio/Musica Classica, non era convalidato professionalmente. Il che rendeva difficile uno scambio culturale internazionale e la crescita professionale di artisti, manager, per non parlare di produttori, ecc. Da allora, le cose sono un po’ cambiate, ma musicalmente l’Italia resta ancora un paese alla periferia della Musica internazionale. L’essere nato in Italia mi ha dato la possibilità di ereditare parte del suo ricchissimo passato artistico. Avere avuto la fortuna di vivere, assimilare e imparare, all’estero, come manifestare questa eredità, è stata una mia grande fortuna.

Passiamo al lavoro di produzione che negli anni ti ha visto protagonista con diversi nomi top dello scenario italiano e internazionale. Per fare un solo esempio le tue collaborazioni con Zucchero hanno fatto storia in termini non solo di successi discografici ma anche di sound, portando in Italia qualcosa di ‘inaudito’. Come è iniziato questo viaggio di ritorno, che ricordi hai di quel periodo?
Mentre ero in Italia, nel 1985, fui contattato da Elio D’Anna il quale mi chiese il favore di aiutarlo come musicista/arrangiatore durante le registrazioni dell’album di un artista che stava producendo. Non ero molto interessato, perché ero in un momento di raro riposo e molto preso da tutti gli album americani ai quali stavo partecipando in quel periodo (Whitney Houston, Aretha, eccetera), così cercai gentilmente di rifiutare… Ma Elio era stato un mio caro amico, per cui accettai di mettere insieme una band e di aiutarlo con gli arrangiamenti dei brani. L’artista in questione era Zucchero e l’album che realizzammo fu “Zucchero and the Randy Jackson Band”. Così nacque l’amicizia e il rapporto molto fortunato che ebbi con Zucchero. Uno dei ricordi che ho di quei lavori iniziali, in particolar modo “Rispetto” e poi “Blue’s”, è lo scetticismo e la resistenza che riscontravo verso l’approccio e il sound che poi – in qualche maniera – influenzò il mercato e il modo di produrre dischi in Italia. Per mia fortuna, dopo il successo di Rispetto, fu più facile fare fronte alle pressioni che ricevevamo.

Quanto è secondo te invece cambiato il modo di fare musica oggi rispetto alle tue origini, e cosa pensi dello scenario discografico odierno? Quanto spazio c’è di conseguenza per la crescita di un nuovo Corrado Rustici e cosa pensi di chi sostiene che oggi esista molta più improvvisazione e fretta e meno ricerca di talenti rispetto al passato?
La mia opinabile opinione è che a differenza di oggi, negli anni 60/70/80, la gestione delle case discografiche era in mano a “vecchi pazzi”, che avevano deciso di investire i loro soldi in questa nuova industria e tecnologia, i quali però saggiamente lasciavano fare agli artisti la loro arte, dandogli il tempo necessario per sviluppare la loro visione artistica. Molto diversamente, l’industria dell’intrattenimento di oggi non ha tempo e non è interessata allo sviluppo e crescita musicale di un artista, perché economicamente irrilevanti. Ci vuole tempo per sviluppare un lavoro e una carriera artisticamente originale. Oggi ci sono vari canali, culturalmente e umanamente poveri, che contribuiscono – ahimè – alla diffusione delle note/contorno usate dalle varie aspiranti star, e dai vari team di produzione, per le stesse due misure e gli stessi 4 accordi che subiamo nel nostro quotidiano. Con l’avvento dei social, l’industria dell’intrattenimento ha ridotto lo sviluppo e lo studio musicale di aspiranti musicisti al compito di costruire filastrocche decorate da emoji musicali. La musica popolare è al momento una collezione di Noteji . Come sempre, la tecnologia detta il “suono” della sua generazione e sono convinto che ci saranno sempre quei pochi (giustamente) veri artisti che cambieranno le carte in tavola di nuovo.

Sei un grande sperimentatore sonoro e ascoltando i tuoi lavori si nota una ricerca costante. Qual è oggi il ruolo della tecnologia digitale nella musica e quali sono le possibilità che offre rispetto al passato analogico?
C’è un suono abbinato all’analogico (decenni fa, la più alta tecnologia a nostra disposizione) molto identificabile, ma che, oggi, non è necessariamente indispensabile, né migliore del digitale. Esiste, però un grande divario fra i tablet, smartphone, computer (che definiscono – sempre di più – il contesto nel quale la musica viene usufruita) e l’industria discografica, che si ostina a distribuire un prodotto stupido per congegni intelligenti. Da diversi anni, sto lavorando a un nuovo approccio per produrre un artefatto musicale per questa era digitale. Ho finalmente brevettato la mia invenzione e spero di potere annunciare qualcosa nei prossimi mesi.

Dovendo infine scegliere tre album a cui hai lavorato da lasciare ai posteri quali indicheresti?
Cervello “Melos”, “Deconstruction of a postmodern musician” e “Aham”.

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