Vasco Rossi e noi, che non siamo mica gli americani

23 Giugno 2016 di Glezos

In occasione dei quattro concerti romani 2016 di Vasco Rossi pubblichiamo uno dei capitoli più significativi di ‘Alla ricerca del Vasco perduto – Creazione di una rockstar italiana’, prodotto da Indiscreto nel 2013 e riguardante uno dei suoi dischi di svolta.

Come si fa a tirare fuori qualcosa che abbia un capo e una coda da un gruppo laocoontico? Il capo è Vasco, la coda è un secondo album che sia la vera partenza e in mezzo c’è l’aria che qualcosa cambierà. Magari non è chiaro cosa, al momento di entrare in studio, ma la strada da qualche parte deve svoltare. Novembre 1978, al ritorno dal breve soggiorno sotto le armi, il carro verde oliva è schivato e si riparte. Ma adesso senza la radio si schiaccia sull’acceleratore e non solo sui tornanti scendendo da Zocca.

‘Non Siamo Mica Gli Americani!’ mette un po’ più a fuoco alcuni aspetti cruciali nella trasformazione di Vasco da dj con il bernoccolo del cantautore (e/o viceversa) ad aspirante contender. È il disco in cui il rock inizia a proiettare un’ombra, non nella natura dei brani quanto negli arrangiamenti e nel suono grazie soprattutto al robusto contributo di Maurizio Solieri, che completa il tragitto all’inverso da dj jazz a Punto Radio a guitar slinger, in onore dei suoi trascorsi di solista di power rock su e giù per l’Appennino qualche anno prima. Ma soprattutto in uno spirito che nel primo album non c’è e che qui è già palpabile, forse aiutato dal clima che accompagna le registrazioni, a cui Vasco accenna nelle note di copertina: “Hanno discusso, litigato, creato e alla fine suonato i fantastici quattro musicisti (in ordine casuale): Gaetano Curreri, tutti i tipi di tastiere, piano, moog, effetti elettronici vari; Antonio Mancuso (anche lui tastiere); Giovanni Pezzoli, batteria, percussioni eccetera; Maurizio Solieri, chitarre elettriche, acustiche, mandolini, cimbali e tutto quello che gli capitava per le mani; Gianamelio Tassoni (Ciccio), basso (con e senza capotasti), contrabbasso eccetera; Massimo Trevisi (Rudy), sax, clarino; Sandro Comini, trombone; Maurizio Biancani, tecnico fonico e “moderatore”. Hanno inoltre collaborato alla realizzazione di questo album, con amore, gusto e fantasia, critiche positive e negative, elucubrazioni, masturbazioni e teorie sul concetto di Bemolle, Bequadro e Becille, slanci di gioia e idee da manicomio (sempre in ordine casuale): Sergio Silvestri che ha scritto anche la musica de ‘La Strega’ e ne ha ideato insieme a Solieri l’arrangiamento; Arturo Arbizzi che ha stravolto con sensazioni emozioni, entusiasmi e creatività quasi tutte le canzoni; Massimino Riva per il solito casino che fa e le sue continue puntualizzazioni sul fatto che comunque Finardi è un’altra cosa; Riccardo Bellei che tra l’altro ha suggerito il bellissimo titolo dell’album; Fini Floriano per il risveglio mattutino di ‘Fegato, Fegato Spappolato’ e infine Leo Pretelli, in arte Persuader, che non è mai venuto a sentire niente, ma che ha detto che il disco ce l’aveva già a casa in anteprima di importazione! Si ringraziano infine gli Ambrosia per averci prestato l’inizio di ‘Quindici Anni Fa’ e Alan Taylor che ha bonariamente e pazientemente seguito tutto”.

Per Maurizio Solieri è anche una questione di metodo: “In realtà è tutto molto più organizzato di come sembra. Tra l’altro, prima di entrare in studio andiamo in sala prove con la band che suonerà poi nel disco: non una preproduzione, ma una preparazione accurata. Io e Gaetano facciamo un grosso lavoro di arrangiamenti, Vasco lavora ancora in discoteca e passa in studio intorno alle sei di sera, ascolta e sceglie: “Questo mi piace, quest’altro no”. Lui ha sempre avuto una qualità che è una gran bella cosa, quella di avere le idee molto chiare”. L’atmosfera in ebollizione è probabilmente l’ideale per far fare ai testi un’inversione a 180 gradi e tornare a uno dei punti di partenza, quel senso del surreale che Vasco trova irresistibile nei dischi di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber di qualche anno prima. Nel disco d’esordio il compito lo aveva svolto solo un pezzo – ‘Ambarabaciccicoccò’ -, ma qui i temi si moltiplicano e sulla lavagna si incomincia a leggere quella lingua che verrà messa a fuoco in futuro. Nota di colore: l’album marca il passaggio della favoleggiata chitarra Martin dalle mani del proprietario Alan Taylor a quelle di Vasco. La contropartita, giudicata a posteriori, non è indifferente: Taylor si becca la metà delle edizioni di tutti i pezzi esclusa ‘La strega’ (firmata Rossi-Silvestri) in cambio di avere “bonariamente e pazientemente seguito tutto”. Dopo i due pezzi firmati in coabitazione nel primo album, per Alan Taylor è un passo avanti. Si mormorerà che l’ex bassista dei Casuals abbia fatto poco al di fuori della trattativa con Walter Guertler, ma Maurizio Solieri smentisce decisamente: “No, no, nel secondo album Alan Taylor è molto presente ed è fondamentale anche per le sonorità: essendo inglese e avendo tutta quell’esperienza sa come vanno registrate le chitarre rock, come si devono posizionare i microfoni eccetera. Non so se la storia della Martin sia vera, ma può benissimo essere: in quei giorni per una chitarra del genere si faceva questo e altro. Ma dal punto di vista del suo contributo, il suo apporto nel secondo disco è di quelli tosti. E siccome questo non lo dice nessuno allora lo dico io”.

Eppure l’inizio di ‘Io non so più cosa fare’ farebbe supporre che le cose non siano cambiate molto rispetto a un anno prima, con il suo intreccio di chitarre acustiche alla West Coast punteggiate dall’efficace contrabbasso di Gianamelio Tassoni. Il groove è più sostenuto e meno italiano dell’intro del primo album. E Vasco entra in scena in una situazione tipo ‘Wake up and make love with me’ di Ian Dury: lei si sveglia, lo tocca qui e là e “si avvicina ancora un po’, mi sfiora con le labbra o cosa non lo so”. Ma cosa fare, soprattutto se lei “magari è femminista, e non vuol certo farsi violentare, la vuole gestire… allora come devo fare, dove la bacio, come la devo toccare?”. Retaggi di ‘period piece’ anni Settanta forse sovrapposti a qualche ricordo personale non troppo gradevole: meglio lasciar perdere e continuare a dormire, visto che “non posso rischiare”. Le rullate di Giovanni ‘Stadio’ Pezzoli spingono i primi “eeeeehhh” e le prime Vasco-esortazioni fuori campo, “Vuole fare l’amore… anch’io, anch’io!!!”. I giri nel finale aumentano all’impazzata e marcano la differenza con la cappa anglodepressa di Ian Dury. L’andazzo alla ‘Wake up’ alla fine vola fuori dalla finestra. Poi parte lo“a-a-a-ah” della festa di paese del medium funk di ‘Fegato, fegato spappolato’ e Vasco entra nella parte dello sciamannato che “è chiaro che sono drogato”. E in più “Fini s’è alzato da poco e non è ancora sveglio / ed è talmente scazzato che non riesce a parlare nemmeno”, proprio lui, il Floriano Fini di Punto Radio. Un ‘Sabato del villaggio’ leopardiano alla rovescia: “La sera che arriva non è mai diversa dalla sera prima / la gente che affoga nell’unica sala, la discoteca! / Si fa qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda / e non m’importa se domani mi dovrò svegliare ancora con quel gusto in bocca”.

Negli ultimi 15 secondi, il colpo: Vasco si esibisce in uno sputo e si lancia in ‘God save the Queen’, seconda citazione dei Sex Pistols dopo la frase sempre dello stesso pezzo tradotta in italiano in ‘Ambarabaciccicoccò’ nel primo album. Non è una versione suonata da Solieri & Co., è il 45 giri originale dei Pistols leggermente aumentato di giri, preso di peso e buttato dentro a viva forza. Vasco entra a valanga in inglese sulle prime battute strumentali del punk hit per eccellenza dell’estate del giubileo 1977. Nell’originale Johnny Rotten arriva dopo un giro a vuoto e c’è spazio sufficiente per editarlo fuori. Sarebbe interessante sentire gli strumentisti di Vasco alle prese con una cover del genere in studio, per vedere anche qui l’effetto che fa e sancire una volta per tutte se i Pistols siano così facili da riprodurre oppure no. Con loro e con il punk è un flirt che va e viene da tempo: se Vasco avesse incluso l’omaggio in un suo album futuro, registrando una sua versione completa del pezzo nel suo status di superstar, le tasche di Rotten e amici avrebbero ricevuto un sostanzioso regalo dal Bel Paese. Maurizio Solieri: “Be’, ‘God save the Queen’ è perfetta così, perché rifarla? Così è stato messo dentro il 45 originale: tra di noi nessuno mastica di diritti d’autore e in più figurati se in Inghilterra verranno mai a sapere che l’hanno usato nel disco di uno sconosciuto cantautore italiano… Clash e Sex Pistols mi piacevano molto e il punk mi piaceva anche dal punto di vista chitarristico, anche se io ero già avanti tecnicamente. È stato un ritorno al rock primigenio che piaceva a tutti – mica solo a me – e che ci ha un po’ influenzati in quel periodo. Questo nonostante il fatto che io non sia nato con il punk ma con Hendrix, Clapton, Page e Jeff Beck. Però il primo e ultimo album dei Pistols è ancora adesso un capolavoro”.

Uno dei mantra più ripetuti nell’ambiente musicale e sulla stampa dell’epoca è che i gruppi punk non sapessero suonare, leggenda smentita clamorosamente nel corso degli anni. Vasco proporrà più di una volta la cover di ‘God save the Queen’ per intero nei suoi live. Memento della spilla regalatagli da Eletttro sotto Natale 1977?

Vasco tracima definitivamente nel rock, persino quello più estremo? Non proprio, non ancora. Un pezzo che si chiama ‘Sballi ravvicinati del 3° tipo’ te lo immagini anche quello sulla falsariga, invece si torna al cantautore di un anno prima in veste un po’ più tardo-psichedelica. A rimettere in moto sui binari giusti ci pensa ‘(Per quello che ho da fare) Faccio il militare’, che anni dopo farà scrivere in lungo e in largo. In 4’29” Vasco se la gioca al livello di alcuni tra i suoi eroi, dallo stesso Jannacci a Giorgio Gaber: non a caso è il pezzo che porterà nelle prime apparizioni in TV. L’epopea del tizio che deve fare la guardia alla polveriera, che gli sta sulle palle perché è domenica sera ma d’altronde non siamo mica gli americani, “che loro possono sparare agli indiani… vacca gli indiani!” resta in testa al primo ascolto. E l’arrangiamento scoppiettante e casinista alla Bonzo Dog Band fa pensare al folle divertimento in studio durante la registrazione. Niente di meglio, se si voleva un pezzo che desse il titolo al mood dell’album. L’intro con Solieri smandolinante in scala napoletana e voce partenopea richiama l’esperienza recente dei giorni in caserma in Campania suoi e di Vasco, finiti giusto in tempo per scriverci sopra un brano che più che Enzo Jannacci fa tornare a galla nella memoria il primo surreale Roberto Benigni con chitarra nei suoi deliri a Onda Libera sulla Rai, proprio nei giorni in cui Vasco è in Fonoprint a registrare l’album.

Onda Libera (o Televacca) va in onda su Rai Due tra il dicembre 1978 e il gennaio 1979 in quattro puntate che faranno epoca. Ambientata in un’improbabile tv locale messa in piedi in una stalla, la trasmissione lancia Roberto Benigni anche in veste di cantautore. Le sue canzoni (‘L’inno del corpo sciolto’, ‘La marcia degli incazzati’ e altre) hanno più di una somiglianza stilistica e di contenuto con ‘(Per quello che ho da fare) Faccio il militare’.

Il ritorno alla camminata rock è scandito dal campanaccio da Charlie Watts di ‘La strega (La diva del sabato sera’)’, direttamente dai tempi dei primi provini e unico brano firmato con Sergio Silvestri, l’ex Puntautore che non ha smesso di scrivere canzoni, anzi. Lei “fa l’amore per gioco, e le piace anche poco…. fuma marijuana, di nascosto però, non dalla Polizia ma da Edvige, la zia…” e fa anche da tappeto al sax di Rudy Trevisi che indossa i panni di Andy Mackay in un arrangiamento firmato Silvestri/Solieri che sa di Roxy Music senza Eno a metà anni Settanta, con la voce di Vasco che gira su un registro inusualmente basso, con tanto di ‘uuuhh’ finale quasi alla Perez Prado.

Un aspetto sempre poco sottolineato è proprio quello della voce. Vasco canta come parla, con tono e inflessioni pressoché identici a quelli che senti appena apre bocca in una conversazione o fino a poco tempo prima ai microfoni di Punto Radio. Cantare come si parla è caratteristica rara e da sempre appannaggio dei grandi per definizione, quelli istintivamente preferiti da Vasco, che sa che la maggior parte di chi fa dischi parla con un timbro che diventa spesso irriconoscibile quando lo senti poi in una canzone. E viceversa. Spesso è un vezzo, in altri casi è intenzionale e più raramente viene naturale, ma è ancora più raro che la voce resti simile se non identica anche quando si canta: la cosiddetta miniera in gola, come vuole un vecchio detto. Nel secondo album Vasco inizia ad abbandonare le frasi lunghe e cantabili in favore di un incedere discorsivo a strappi che indica quello che verrà. In più può contare su una voce intonata e dalla pasta molto particolare, di quelle che di solito sono il godimento dei tecnici in studio per una naturalezza che ha precedenti forse solo in Enzo Jannacci, nei due Lucio (Battisti e Dalla) e in pochi cantautori come Francesco De Gregori e Fabrizio De André. Siamo ancora in tempi di produttori e discografici che spingono su aspetti molto spesso vaghi – prima di tutto per loro – come intonazione, limpidezza, emissione e altri aspetti del tutto irrilevanti in molti artisti e album da loro celebrati, additati e branditi a mo’ di bastone dai cosiddetti addetti ai lavori ogniqualvolta si voglia scoraggiare un esordiente. Fortunatamente Vasco se ne frega e la sua voce inizia qui a farsi largo per l’istantanea riconoscibilità, per l’inflessione che da locale inizia a diventare universale e per il fraseggio che da lì a un paio d’anni lo identificherà definitivamente come uno tra i pochissimi nel nostro paese a potersi fregiare in pieno del titolo di innovatore.

Su ‘Albachiara’ è arduo, inutile e quasi pericoloso aggiungere qualcosa. Dall’abbozzo iniziale di Massimo Riva dedicato al disastro di Seveso alla ragazzina vista dalla finestra mentre scende dalla corriera tutti i giorni, la stessa di ‘Canzone per te’ tra qualche anno, sono oceani di ogni tipo di inchiostro versati da oltre 30 anni su un rito collettivo da dervisci. Che sia o no la sua Gioconda o che identifichi Vasco per intero è opinabile, non lo è il fatto che poche canzoni dal secondo dopoguerra in poi abbiano sigillato in modo così totalizzante un’epoca e una vicenda personale. Nota a parte per il ruolo che qui giocano gli strumentisti, Maurizio Solieri su tutti: la sua parte si scolpisce in conscio e inconscio collettivo incarnando a sua volta il primo esempio eclatante di chitarrismo rock mainstream in chiave tricolore, dal drive alle figure ritmiche, dal lancio del solo alla carambola finale. Altra nota di colore: Solieri cederà a Vasco la Yamaha SX 900 suonata in ‘Albachiara’ in cambio di una Gibson Les Paul Standard Sunburst, ma poco dopo la Yamaha verrà rubata da ignoti in sala prove. “‘Albachiara’ l’abbiamo provata a lungo prima di entrare in studio, e il riff di chitarra raddoppiato è un’idea di Vasco. Lui mi diceva spessissimo cose del tipo: “A questo punto c’è l’assolo, fallo come vuoi tu ma incomincia con queste note”. E me le cantava. Ha sempre avuto una grande intuizione, che continua ad avere anche oggi”. Volenti o nolenti, l’idea che ognuno di noi ha di Vasco parte da qui: per alcuni nel tempo si contraddirà da sola, per gli altri resterà fede religiosa.

Dopo si scende. ‘Quindici anni fa’ non sarebbe uno di quei brani che fanno scrivere una cartolina a casa, se non fosse per il fatto che siamo davanti a un caso bizzarro. Il suo intro, riproposto anche nel prosieguo del brano, è una parte strumentale di un pezzo degli Ambrosia riprodotta nota per nota (il finale di ‘Can’t let a woman’, singolo tratto dal secondo album della band prog-rock americana uscito nel 1976). Evidentemente Vasco, Gaetano Curreri e gli altri ne sono innamorati al punto di costruirci intorno il brano, dichiarando il ‘prestito’ nelle note di copertina. Solieri: “Io gli Ambrosia non so nemmeno chi siano, probabilmente l’idea della citazione è di Vasco e del suo amico, collaboratore e anche corista Auro Lugli”.

‘Can’t let a woman’ è il penultimo brano dell’ipersinfonico e ultraprogressive ‘Somewhere I’ve never travelled’ del 1976 (20th Century Fox), secondo album degli statunitensi Ambrosia, nominato ai Grammy di quell’anno ma dallo scarso successo commerciale in America (79° posto nella chart degli album, singolo al 102°). L’album esce quando il prog-rock è agli sgoccioli: un genere che non ha comunque mai sfondato negli USA. Due anni dopo la band passa alla Warner Bros. e a un repertorio un po’ più radiofonico. Il successivo ‘Life beyond L.A.’ (1978) arriva 19° nelle charts americane, con il singolo ‘How much I feel’ che raggiunge il 3° posto diventando un classico della band, attiva tuttora. Nelle note di copertina di ‘Non siamo mica gli americani!’ Vasco sottolinea: “Si ringraziano infine gli Ambrosia per averci prestato l’inizio di ‘Quindici anni fa’”.

Il finale vaudeville/anni Trenta di ‘Va be’ (se proprio te lo devo dire)’ chiude in modo lieve, con arrangiamento d’epoca e atmosfera tra il divertissement dei Queen di metà anni Settanta e il tono di un Dino Sarti del futuro. Gaetano Curreri è il secondo all’angolo di Vasco per un album – il secondo, anche quello – che forse lo mette meno in mostra rispetto al precedente, dove c’erano meno chitarre e meno ebollizioni, qui portate a peso anche da un Massimo Riva all’esordio come chitarrista ritmico, addetto al casino e partner in crimine. Le sue puntualizzazioni citate da Vasco nelle note di copertina (“Comunque Finardi è un’altra cosa”) fanno immaginare dibattiti seri e semiseri all’ultimo sangue sui dischi di questo e quello. L’’americano’ Maurizio Solieri rileva: “In questo periodo c’è una forte crescita di questi cantautori che si ispirano chiaramente al country, al blues e alla musica americana più in generale con testi in italiano importanti. E ci sono grandi personaggi che stanno uscendo: è una fase in cui mi piacciono molto Eugenio Finardi e Alberto Camerini, prima di loro Fabrizio De André. Si era partiti dai tempi di Lucio Battisti per arrivare a Edoardo Bennato, con l’unione di testi di un certo peso e musiche che guardavano al funky e al rock. Non ho mai avuto preconcetti nei confronti della musica italiana, per me è come quella che viene dall’estero: mi piace dall’hard rock all’heavy metal fino a James Taylor. E allo stesso tempo mi piace dal progressive tricolore ai cantautori”. Peccato che Leo Persuader non sia presente alle session, magari con la telecamera comprata a Punto Radio qualche tempo prima.

Il disco esce a maggio. Si cambia anche nella copertina, con Vasco che compare per la prima volta in primo piano e con i capelli corti. Molti anni dopo racconterà: “Naturalmente prima di uscire dalla caserma per andare all’ospedale militare di Napoli uno mi ha preso e mi ha tagliato i capelli a zero. E questo mi ha fatto molto molto piacere, perché io tenevo ai miei capelli praticamente come alla mia vita”. Più che al servizio militare, il passaggio degli indiani (quelli di ‘Faccio il militare’?) e la criniera tosata rimandano un po’ alla foto del primo singolo Borgatti, ma sull’album l’espressione di Vasco è quella di uno che ti ha appena messo delle puntine da disegno sulla sedia in attesa di vedere cosa succede. La foto strappata da un lato e lo sfondo con bandiera americana virata in bianco rosso e verde ci conferma che anche nella grafica siamo in pieno post punk. Lo strappo sulla carta corre anche sul retro copertina sotto una foto di Vasco con chitarra, giubbotto e sciarpa seduto davanti a un boccale di birra per uno scatto tutto bolognese, un po’ da Osteria delle Dame – storico bistrot con cabaret, cantautori con chitarra e dibattiti vari – oppure alla Vito, la famosa osteria degli artisti. Anche in questo caso la copertina cambierà radicalmente nelle successive riedizioni. Prima con la solita fotocolor in maglioncino rosso e asciugamano al collo (la stessa delle ristampe del primo album, sempre quella) e in seguito con uno stravolgimento totale – in peggio – della grafica e una foto dal vivo in atteggiamento ‘da Vasco’, con il nuovo titolo che diventa ovviamente ‘Albachiara’ e con quello vecchio come sottotitolo. Tristezze da purissima italianità in marketing a parte, i Vascollezionisti si accaparrano il singolo che accoppia ‘Fegato, fegato spappolato’ ad ‘Albachiara’ (finita sul lato B perché ritenuta meno commerciale!) e inseguono tutt’oggi la rara versione promo del vinile in copertina bianca.

Il bernoccolo del dj sparisce qui, anche se c’è ancora tanto da metterci dentro e la metamorfosi rock è alle prossime stazioni. Non saremo mica gli americani e Finardi sarà un’altra cosa, ma Vasco alla fine timbra il biglietto e sale sul treno che rischiava di perdere.

CopertinaVasco(Estratto del libro Alla ricerca del Vasco Perduto – Creazione di una rockstar italiana, di Glezos. Indiscreto Editore, 320 pagine a 15 euro. La biografia non autorizzata del cantante più amato: dai giorni da dj alla svolta di Albachiara, passando per l’epopea di Punto Radio, gli inizi e la strada verso il successo come chiavi per capire la musica e l’Italia degli anni Settanta, ma anche il Vasco Rossi dagli anni Ottanta ad oggi. In vendita su Amazon.it e in libreria. Il libro è disponibile anche in versione eBook a 6,99 euro, per Kindle di Amazon e per tutti i tipi di eReader attraverso BookRepublic, oltre che per iPad e iPhone andando su iTunes).

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