Umano, con Ermal Meta synth pop e durata di altri tempi

5 Marzo 2016 di Paolo Morati

Ermal Meta

Ermal Meta è un autore ricercato nel panorama italiano, ha fatto una gavetta vera, ha militato in un paio di band: prima Ameba 4 come chitarrista e poi ha formato La Fame di Camilla con la quale ha inciso tre album. E adesso, dopo aver seminato e raccolto anche dietro le quinte, prova la carta solista. Albanese trapiantato a Bari, il suo primo prodotto da solista, Umano (pubblicato da Mescal), ci ha emozionati, per tante ragioni la prima delle quali è legata al sound che mette insieme un synth pop d’epoca e una voce del tutto riconoscibile. Della durata umana, appunto, di trentacinque minuti per nove canzoni come ai bei vecchi tempi, senza riempitivi inutili, l’insieme si apre con la perfetta Odio le favole con cui si è piazzato terzo tra le nuove proposte del Festival. Per ora è di fatto il brano della rassegna che ci è rimasto più in testa (ci capita di ascoltarlo in loop), corredato da un bel video che tra un unico piano sequenza apparente e morphing finale attraversa quattro età della vita: infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta.

Il percorso prosegue con Gravita con me, sound e ritmo usciti direttamente dalle esperienze pop che non fanno rumore, il modo giusto di usare l’elettronica che cresce. Niente di frastornante, per fortuna, mantenendosi sulle corrette corde leggere che si fanno ascoltare lo vediamo bene come prossimo singolo. Pezzi di paradiso rallenta un po’ mantenendo un sapore vintage per introdurre poi la prima ballad del disco: A parte te (già portata al successo da Moreno e Fiorella Mannoia con il titolo di Sempre sarai, ci piace di più la versione dell’autore).

Il lato B di Umano – ragionando in una logica da vinile che calza a pennello – parte con la title track, il brano più arrabbiato del lotto insieme alla successiva Volevo dirti, che dal punto di vista sonoro riprende il pop dalle ampie aperture melodiche che tanto ci piace, dopodiché Ermal Meta spariglia di nuovo le carte con una canzone orecchiabile come Bionda, che vedremmo bene a girare d’estate se le radio volessero puntarvi. Lettera a mio padre e Schegge (il secondo lento) chiudono in modo pacificante un elegante disco in lingua italiana che, tra testi pensati e arrangiamenti particolari, non sembra troppo contemporaneo pur suonando modernissimo, anche perché non urla ma racconta. Ma forse anche perché siamo noi che andiamo alla disperata ricerca del passato anche nel presente.

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