Muhammad Ali e la versione di Gianni Minà

12 Novembre 2015 di Indiscreto

In ogni sport è difficilissimo stilare classifiche sui più grandi di ogni tempo. Nella boxe è poi strutturalmente impossibile, considerando la molteplicità di organizzazioni e anche il caos al loro interno, senza la possibilità di rimpiangere un passato felice visto che le modalità per arrivare a un titolo mondiale sono sempre state vaghe anche quando c’era un’unica sigla. Questo non toglie che ‘The Greatest’ sia indiscutibilmente Cassius Clay-Muhammad Ali, per motivi sia sportivi che di pura popolarità. Dal 1960, cioè dall’oro nei mediomassimi ai Giochi di Roma, fino all’ultimo tentativo mondiale con Holmes (1980), lui è stato più grande del suo stesso sport e lo ha traghettato dall’era delle grandi arene a quella televisiva dei match-evento, che dura ancora oggi e non conosce crisi, anche senza prendere come esempio le vette finanziarie di Mayweather-Pacquiao. Come tutti sanno, Gianni Minà è stato di Ali più grande cantore in Italia. Dove cantore non sta per leccapiedi, leggendo con attenzione l’interessante raccolta di suoi articoli nel libro Il mio Ali, editata da Rizzoli-Rai Eri.

Per le varie testate con cui ha ha collaborato (Corriere dello Sport, Repubblica, Rai e altre) Minà ha cercato di raccontare Ali al di là dell’evento sportivo ed in questo è stato facilitato dall’epoca in cui ha iniziato a farlo: il 1970, quando Ali rientrò dalla squalifica di tre anni in seguito al suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito (erano gli anni del Vietnam, non che ce lo avrebbero mandato ma il suo fu comunque un grande gesto simbolico) e nella sua strada per tornare campione del mondo incrociò una generazione di pugili di livello pazzesco: più dei campioni come Frazier, Foreman e Holmes impressionano i comprimari: Floyd Patterson (che campione lo era stato), Ken ‘Mandingo’ Norton, le speranze bianche Oscar Bonavena e Jerry Quarry… Il fatto di essere stati scritti all’epoca impedisce a questi articoli di schiacciare il tasto della nostalgia, ma non di proporre un’analisi della società e del mondo sportivo praticamente in diretta. In questo senso Clay-Ali è stato il primo personaggio dello sport con un fortissimo impatto politico ed il fatto che la sua scelta, la conversione all’Islam, con i Musulmani Neri prima di Malcolm X e poi di Elijah Muhammad, sia stata discutibile e senz’altro razzista (anzi, autorazzista: Ali teorizzava l’esistenza di città, all’interno della stessa America, soltanto per musulmani neri), poco cambia in senso storico. Ali è stato il primo a non farsi trattare come un burattino, o comunque il primo a scegliere da chi farsi strumentalizzare.

Gli articoli di Minà, pur velati dall’ammirazione prima e dall’amicizia poi, sono tutt’altro che cortigiani: anzi, la descrizione del mondo intorno al campione è dettagliatissima e impietosa. Amici senza arte né parte, mogli, amiche, avvocati, ideologi del movimento, improvvisati consiglieri spirituali e finanziari, uno stuolo di assistenti senza un compito. Lo stesso Ali pur disprezzando lo showbusiness viene raccontato come uno che lo cavalcava, avendone capito i meccanismi. Con tutta questa gente da mantenere è facile spiegare perché abbia dovuto combattere fino a quasi 40 anni, ‘ringraziando’ per la sua malattia soprattutto gli ultimi match con Holmes e Berbick. Si salva soltanto Angelo Dundee, il grandissimo allenatore che di Ali sapeva tutto e che avrebbe collaborato anche con Leonard e Foreman… Minà parla anche senza problemi dell’operazione che portò nel 1964 a sostituire praticamente a tavolino, come campione del mondo dei massimi, l’incontrollabile Sonny Liston con il più telegenico Clay: operazione compiuta sopra la testa di Clay, ma di cui comunque lui fu il primo beneficiario.

Rino Tommasi, testimone privilegiato (da organizzatore e da giornalista) di quell’epoca d’oro della boxe, in passato ha imputato a Minà l’eccessiva vicinanza ai soggetti dei suoi articoli e probabilmente anche in questo caso la critica è fondata: ma la grandezza e la trasversalità di Ali sono tali che non è possibile rimanergli indifferenti. Essendo il libro una raccolta di articoli le ripetizioni non mancano, almeno una decina di volte viene spiegata la tattica del rope-a-dope, ma la freschezza dei pezzi scritti sul posto e al momento supera i decenni e vince su rimasticature magari più meditate. Stonano la prefazione di Mina (senza accento, è la cantante) ed i continui riferimenti a grandi personaggi, da Garcia Marquez a De Niro, tanto per far vedere che li si conosce: ma sono le consuete tasse da pagare a un giornalista che nella sua carriera ha avuto sia l’opportunità che le capacità per comprendere gli eventi a cui stava assistendo e collocarli in un contesto storico.

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